ED McBAIN
CHIAMATE FREDERICK 7-8024
(The Heckler, 1960)
1
Come una gran dama, arrivò l'aprile.
Il poeta che scrisse sulla crudeltà dell'aprile forse aveva ragione, ma sta di fatto che quell'anno non c'era nessuna crudeltà in esso. Si annunciò con delicatezza, percorrendo le strade della città a occhi spalancati, con l'espressione ingenua di una fanciulla. E veniva voglia di prenderla fra le braccia, quell'adolescente che sembrava tanto sola e spaurita nel geometrico miscuglio di estranei, intimidita dalle strade e dai palazzi, commovente con quella sua aria da signora materializzatasi dalla fredda pazzia di marzo.
Vagava sola, coi suoi occhi grigio pallido, raggiungendo le persone fin dentro di loro, come sempre faceva, ma senza crudeltà. Affondava le sue dita di primavera nel più profondo degli esseri umani che la sentivano arrivare sempre più vicina, e offrivano tenerezza per essere trattati con tenerezza, anche se solamente per poco.
E per quel poco, aprile avrebbe sfiorato i sentieri di Grover Park, gli alberi, le aiuole, spandendo attorno un delicato profumo. Attorno al lago e accanto alla statua di Daniel Webster, nella Ventesima Strada, i ciliegi sarebbero esplosi nella prossima fioritura.
E più a ovest, nella città alta, di fronte all'edificio che ospitava gli uomini dell'87° Distretto, gialli fiori rampicanti si preparavano a orlare d'oro i muri di cinta del parco, mentre i cotogni aspettavano, per sbocciare, il vero e caldo sorriso dell'aprile avanzato.
Per l'agente Meyer Meyer, l'aprile era un pagano.
Forse per l'ispettore Steve Carella, l'aprile era un ebreo.
Questo sta a dire che, per entrambi, l'aprile era una creatura strana, esotica, affascinante e un po' irreale, calda, seducente e avvolta di mistero. La creatura attraversò la strada provenendo da Grover Park, entrò nella sala agenti dell'87° Distretto, e, col suo insinuante profumo e le gonne svolazzanti, rese tutti romantici.
Steve Carella sollevò la testa dal classificatore zeppo di schede e ricordò i suoi tredici anni e il suo primo bacio. Era successo in una sera d'aprile di tanti, tanti anni prima.
Meyer Meyer guardò, attraverso le inferriate delle finestre, le nuove foglie spuntate sugli alberi del parco, al di là della strada, e cercò di ascoltare pazientemente l'uomo che sedeva di fronte a lui, dall'altra parte della scrivania, sulla sedia dallo schienale troppo dritto. Ma perse la battaglia e si ritrovò a pensare a come si sentiva quando aveva diciassette anni.
L'uomo seduto di fronte a Meyer Meyer si chiamava Dave Raskin, ed era proprietario di una ditta di abiti fatti. Possedeva anche novantacinque chili di carne, distribuiti su un metro e ottantaquattro di statura, avvolti in quel momento in un abito di seta tropicale blu chiaro. Era un tipo piacente, con capelli grigi, fronte alta, naso la cui punta si chinava pericolosamente in giù, bocca da oratore, e mento che sarebbe stato del tutto a suo agio su un balcone romano del 1933. Fumava un sigaro profumato e soffiava il fumo verso Meyer Meyer. Ogni volta, Meyer agitava una mano davanti alla propria faccia per ripulire l'aria, ma Raskin non dimostrava di captare l'implicito sottinteso del gesto. Una volta in più, il fumo pesante volò dalla bocca di Raskin alla faccia di Meyer Meyer. Non era facile apprezzare l'aprile e il ricordo dei diciassette anni, essendo costretti contemporaneamente a sorbirsi tutto quel fumo e il racconto di Raskin.
— Così Sally mi ha detto: perché mai devi aver paura? — stava dicendo Raskin. — Quello è proprio il Distretto di Meyer. Tu sei cresciuto insieme con suo padre, e lui è un bravo ragazzo, figlio di un amico tuo, mi ha detto. Perché devi aver paura di andare a trovarlo? Lui adesso è un agente, no? — Raskin si strinse nelle spalle. — Ecco che cosa mi ha detto Sally.
— Capisco — commentò Meyer, e agitò una mano per liberarsi del fumo.
— Volete un sigaro?
— No! No, grazie.
— Sono ottimi. Me li ha mandati mio genero da Nassau. Ha portato là mia figlia per la loro luna di miele. È un gran bravo ragazzo. Fa il pubblicista. Sapete cos'è?
— Sì — rispose Meyer, e tornò ad agitare la mano.
— È proprio come ha detto Sally. Io sono cresciuto insieme con vostro padre, che Dio gli dia pace. Quindi, perché dovrei aver paura a parlare con suo figlio? Sapete che quando vi hanno circonciso c'ero anch'io? E adesso dovrei aver paura di venirvi a esporre un piccolo problema? Siete certo di non volere un sigaro?
— Assolutamente certo.
— Sigari buonissimi. Me li ha mandati mio genero da Nassau.
— Grazie, no, signor Raskin.
— No... chiamatemi Dave. Mi fate un favore.
— Bene. Allora... Dave, qual è il guaio? Voglio dire, perché siete venuto qui?
— Ho un rompiscatole.
— Cosa?
— Uno che dice cose strane.
— Cosa intendete, esattamente?
— Uno che dà fastidio.
— Temo di non capire.
— Continuo a ricevere telefonate — spiegò Raskin. — Due, tre volte la settimana. Io sollevo il ricevitore e una voce dice: «Il signor Raskin?». «Sì» rispondo io. E la voce continua: «Se non lasciate il magazzino per il trenta aprile io vi ucciderò». E poi riattacca.
— È un uomo o una donna? — s'informò Meyer.
— Un uomo.
— E non dice altro?
— Nient'altro.
— Cosa c'è di così importante, in quel magazzino?
— E chi lo sa? È un piccolo locale sotto il tetto, in Culver Avenue, pieno di topi grossi come coccodrilli. Lo uso come magazzino. E lavorano là alcune ragazze che mi stirano i vestiti confezionati.
— Allora non lo considerate un luogo che possa far gola?
— Ad altri topi forse! Ma anche se fosse, non vedo perché telefonare e minacciare.
— Capisco. Non conoscete nessuno che vorrebbe vedervi morto?
— Io? È ridicolo! — esclamò Raskin. — Io sono benvoluto da tutti.
— Lo credo. Ma forse qualcuno dei vostri amici o conoscenti non ha la testa molto a posto, e forse nutre la pazzesca idea che sarebbe bello vedervi morto.
— Impossibile.
— Capisco.
— Sono un uomo rispettabile. Vado al tempio tutte le settimane. Ho una buona moglie e una bella figlia. E un genero che fa il pubblicista. Possiedo due negozi per la vendita al minuto qui in città, e tre depositi in altrettanti mercati della Pennsylvania. E infine quel locale nel quartiere, in Culver Avenue. Sono un uomo del tutto rispettabile.
— Naturalmente — convenne Meyer. — Be', ditemi, Dave, non può essere che qualche vostro amico abbia voluto farvi uno scherzo?
— Uno scherzo? Non credo. I miei amici, scusatemi l'espressione, sono tutti degli stupidi, monotoni bastardi. Per dirvi la verità, Meyer, quando vostro padre Max Meyer è morto, che Dio abbia cura della sua anima, quando vostro padre e mio grande amico è morto, questo nostro mondo ha perso un uomo divertentissimo. Questa è la verità. Era una persona brillante, sempre pronto alla risata, sempre con qualche scherzo in mente. Lui sì, che era un uomo allegro.
— Sì, oh, certo — rispose Meyer, sperando che non si notasse il suo scarso entusiasmo. Era stato proprio suo padre, quel divertentissimo tipo di Max Meyer, che aveva deciso di chiamare il figlio col doppio nome di Meyer Meyer. Buffissimo davvero. Quando Max aveva annunciato il nome del figlio all'officiante, trentasette anni prima, probabilmente tutti gli invitati, compreso Dave Raskin, si erano messi a ridere. Per Meyer Meyer, cresciuto col peso di quel nome, l'umorismo della situazione non era stato dei più apprezzabili. Pazientemente si era trascinato dietro il proprio nome. Pazientemente aveva sofferto gli scherzi e le frecciate e le offese di chi stabiliva che la faccia di Meyer era sgradevole perché il suo nome era stupido. Lui si era vestito di pazienza come d'un'armatura. «Omnia Meyer in tres partes divisa est: Meyer, et Meyer, et Patientia.» Le tre cose messe insieme davano ora un agente di 2° grado in forza all'Ottantasettesima Squadra Investigativa. Un buon poliziotto che non trascurava mai niente, e che portava alla conclusione i casi che gli venivano affidati, con ostinazione e pazienza, così come qualche altro agente ricorreva alla fortuna e alla eccessiva disinvoltura.
Comunque, dopotutto, il vecchio Meyer non aveva nuociuto gran che al figlio. Certo non era stato piacevole, ma lui era sopravvissuto, ed era diventato un buon poliziotto e un buon uomo.
Era maturato senza riportarne visibili danni, a meno che qualcuno non facesse la letteraria osservazione che l'assoluta calvizie di Meyer Meyer poteva anche essere il risultato di trentasette anni di sublimazione. Ma in una Squadra Investigativa non sono molti, quelli che vogliono fare gli intellettuali.
Ora Meyer Meyer ascoltava pazientemente Dave Raskin raccontare quanto era stato divertente suo padre, ma lui, che ne aveva ridimensionato la figura col passar degli anni, non ne era affatto convinto.
— Perciò non c'è nessuno che potrebbe fare un simile scherzo, credetemi — disse Raskin. — Se fosse possibile, non sarei venuto qui.
— Allora, cosa pensate, Dave? Quell'uomo intende veramente uccidervi se non lascerete libera la vostra soffitta?
— Uccidermi? Chi ha detto questo? — protestò Raskin, che a Meyer parve però leggermente impallidito. — Uccidere me?
— Non ha detto che vi avrebbe ucciso?
— Sì, ma...
— Non avete appena detto che non pensate che si tratti d'uno scherzo?
— Sì, ma...
— Allora, apparentemente, pensate che «lui» intenda uccidervi, a meno che non lasciate libera quella soffitta. Non è giusto?
— No che non è giusto! — protestò Raskin, quasi indignato. — Forse è giusto per voi, ma non per me. Dave Raskin non è venuto qui perché pensava che qualcuno intendesse ucciderlo.
— Allora perché siete venuto?
— Perché questo tipo, questo rompiscatole, questo disgraziato che mi telefona due o tre volte la settimana, spaventa le ragazze che lavorano per me. Ho tre portoricane che stirano gli abiti in Culver Avenue. È ogni volta che quella cimice telefona quando io non ci sono, dice alle ragazze: «Dite a quel figlio d'un cane di Raskin che lo ucciderò se non lascia libera la soffitta!». Le ragazze si spaventano e non lavorano più.
— Be', e che cosa volete che faccia, io? — domandò Meyer.
— Scoprire chi è. Fargliela smettere. Mi minaccia, lo capite?
— Capisco benissimo. Ma non mi pare che qui ci sia sufficiente materiale per... Questo individuo ha fatto qualche reale attentato alla vostra vita?
— Ma che cosa volete aspettare? Che mi uccida davvero? — ribatté Raskin. — E dopo? Mi farete un bel funerale?
— Ma avete detto che non dev'essere una cosa seria — fece notare Meyer.
— Non penso che mi voglia uccidere. Ma supponete che lo faccia. Ci sono molti pazzi in circolazione, lo sapete?
— Sì, certo.
— Perciò, supponete che questo pazzo mi piombi addosso con una rivoltella o un pugnale o qualcosa del genere...
— Sentite, Dave...
— Dave, Dave! Non chiamatemi Dave! Mi ricordo di voi quando eravate in fasce, e vengo qui a dirvi che un uomo vuole uccidermi, che continua a ripetermelo... Questo è tentato omicidio, no?
— No. Questo non è tentato omicidio.
— E non è nemmeno ricatto? Nemmeno questo?
— Lo si può soltanto accusare di linguaggio sconsiderato, offensivo, minaccioso o diffamatorio. — Meyer s'interruppe un attimo, pensoso. — Be', non so, può darsi che intenda arrivare a una specie di ricatto cercando di farvi lasciare la soffitta con le sue minacce.
— Certo! Quindi prendetelo!
— Chi? — domandò Meyer.
— L'uomo che fa le telefonate.
— Non sappiamo chi sia — fece notare Meyer.
— Semplice — ribatté Raskin — intercettate la prossima telefonata.
— Impossibile, in questa città. Tutti i telefoni sono automatici.
— E allora, cosa facciamo?
— Non lo so. Telefona di solito in ore o giorni particolari?
— Finora ha sempre telefonato di pomeriggio, sul tardi. Fra le quattro e le cinque.
— Be', sentite — disse Meyer — forse verrò da voi oggi o domani, così potrò ascoltare la telefonata, se arriva. Dov'è il vostro magazzino?
— In Culver Avenue 1213 — rispose Raskin. — Non potete sbagliare, è proprio sopra la banca.
Nelle strade i ragazzi gridavano: «Pesce d'aprile. Pesce d'aprile!» per sottolineare i loro scherzi di quella prima giornata del mese. Si rincorrevano per Grower Park come sempre fanno i ragazzi, nascondendosi dietro alberi e cespugli, e balzando fuori all'improvviso per far spaventare i compagni.
— Frankie! Guarda una tigre su quella roccia!... Pesce d'aprile! Pesce d'aprile!
Poi schizzavano via per nascondersi dietro altri alberi e altri cespugli e altri massi di pietra.
— Là! Sopra la tua testa, Johnny! Un'aquila... Pesce d'aprile!
Correvano fra le aiuole. Poi uno dei ragazzi scappò nel folto d'un gruppo d'alberi, e la sua voce si levò da qualche punto del boschetto, urlante di paura.
— Frankie! C'è un morto qui!
Questa volta nessuno gridò: «Pesce d'aprile!».
2
L'uomo trovato in Grover Park era abbigliato per l'estate ormai prossima. O forse è meglio dire che era spogliato, per l'estate. Dipende dai punti di vista. Comunque, da qualsiasi punto di vista si considerasse la faccenda, restava il fatto che l'uomo era vestito soltanto d'un paio di scarpe nere e d'un paio di calze bianche. Abbigliamento che, se usato per girare nelle strade di una città, fa incorrere in una violazione del codice. Ma l'uomo non poteva più preoccuparsi di non sollevare le ire della legge. L'uomo era morto.
E se l'esame del foro di proiettile ben visibile nel suo petto significava qualcosa, allora l'uomo era stato ucciso da un fucile da caccia sparato a distanza ravvicinata. Giaceva supino, sotto gli alberi, e il piccolo gruppo di esperti lo osservava con varie espressioni: disgusto, indifferenza, noia, ma soprattutto pena. Steve Carella era uno dei poliziotti che osservavano il corpo nudo del morto. Gli occhi di Carella erano stretti fin quasi a essere chiusi, per quanto non ci fosse sole, sotto la volta degli alberi. La sua faccia aveva un'espressione di collera mista a sconforto. Guardava l'uomo e pensava: «Nessuno dovrebbe morire in aprile» e intanto notava meccanicamente la ferita, composta da un grande foro centrale contornato da altre piccole lacerazioni tutt'intorno. Il largo foro della ferita gli diceva che il colpo era stato sparato da una distanza che andava da un metro a due metri e sessanta dalla vittima. A meno di un metro, la ferita avrebbe avuto anche segni di ustione, e un annerimento della pelle. Oltre i due metri e sessanta le piccole ferite attorno al foro centrale avrebbero occupato una maggior zona sulla pelle della vittima. Sapendo ciò, e nient'altro per il momento, la mente di Carella si fermò su questo particolare, mentre un'altra parte di lui osservava l'ammasso di carne fredda e senza vita che fino a non molto tempo prima aveva costituito un uomo; una mano gli salì alla bocca con un moto convulso, per quanto non ci fosse sudore da asciugare.
Faceva quasi freddo, nel boschetto dove i poliziotti stavano lavorando. I flash del fotografo esplosero attorno al cadavere. Una linea venne tracciata sul terreno a segnare i contorni del corpo. I tecnici del laboratorio esplorarono i cespugli e il prato intorno, alla ricerca d'impronte. E tutti parlavano di guerra fredda, del tempo, di sport, ma non della morte che li fissava dal suolo erboso. Poi il loro lavoro finì. Per lo meno il lavoro che potevano fare sul posto. Il cadavere venne caricato su una barella, trasportato sul sentiero, e poi fuori dal parco dove un'ambulanza era in attesa. La barella col suo carico venne infilata sulla macchina e l'ambulanza partì per l'ospedale dove si sarebbe praticata l'autopsia. Per un momento Carella pensò al tavolo metallico delle autopsie, con le scanalature per raccogliere il sangue, ai ferri usati dai medici, e ripensò: «Nessuno dovrebbe morire in aprile». Poi raggiunse la macchina della polizia ferma alla curva, e tornò al Distretto. Non trovò posto davanti all'87°, quindi parcheggiò due isolati più avanti e risalì a piedi la Grover Avenue.
L'edificio in pietra sembrava quasi far parte dell'aprile. Il grigio della facciata assumeva un tono più morbido. I due globi verdi che portavano scritto in bianco il numero ottantasette si arricchivano dell'azzurro del cielo. Ma la similitudine finiva appena varcata la soglia. L'ingresso, dal soffitto altissimo, ricco soltanto della scrivania del sergente Dave Murchison, col sergente seduto dietro, aveva il calore e l'aspetto di un iceberg. Carella salutò Murchison con un cenno e seguì la direzione della mano intagliata nel legno che gli diceva, nel caso mai non lo sapesse ancora dopo tutti quegli anni, dov'era la sala agenti della Squadra Investigativa.
Salì la scala metallica, notando per la prima volta quanto fossero rumorose le sue scarpe, voltò a sinistra nel corridoio, oltrepassò due panche allineate contro le pareti, e stava superando lo spogliatoio quando per poco non urtò contro Miscolo, che stava uscendo.
— Ehi, ho giusto bisogno di te — disse Miscolo.
— Ah, sì?
— Vieni nel mio ufficio un momento. Puoi?
L'ufficio al quale Miscolo si riferiva era lo schedario, uno sgabuzzino proprio di fronte alla bassa ringhiera di legno che divideva il corridoio dalla sala agenti. Miscolo aveva la responsabilità dell'Ufficio Schede, e se ne occupava con la rigidità, la chiaroveggenza e la decisione di un mercante di cavalli arabo. Sfortunatamente i cavalli di Miscolo erano una manciata d'agenti di pattuglia che facevano turni di ventiquattr'ore. Ma se Miscolo avesse potuto disporre di cento uomini, tutti i delitti della città sarebbero stati eliminati nello spazio di due giorni. Lavorando in collaborazione col laboratorio scientifico, che si trovava giù in High Street, e con l'Ufficio Identificazione Criminale, le schede di Miscolo avrebbero reso impossibile commettere un reato senza incorrere nell'immediata cattura con conseguente incarcerazione. O, almeno, lui la pensava così.
Per il momento, l'Ufficio Schede era deserto. I verdi classificatori stavano allineati contro una parete, quella di destra, di fronte alle due scrivanie.
In fondo alla stanza, l'unica stretta finestra si apriva sul profumo dell'aprile.
— Che bella giornata, eh? — fece Miscolo.
— D'accordo. Cos'hai in mente? — domandò Carella.
— Due cose.
— Spara.
— Primo: May Reardon.
— Cosa c'è, sulla signora Reardon?
— Ecco, Steve: sai che Mike Reardon ha lavorato qui per molto tempo prima che lo uccidessero. Io volevo bene a Mike. Tutti gliene volevano. Anche tu, no?
— Anch'io, certo — ammise Carella.
— Lui ha lasciato May con due bambini. Adesso, per vivere, lei viene a fare pulizia qui al Distretto. Ma quanto credi che guadagni? Non certo abbastanza per crescere due bambini. Tu hai moglie e figli, Steve. Dio non voglia, ma supponi che ti capiti una disgrazia. Vorresti che Teddy, per vivere, venisse a fare le pulizie al Distretto?
— No — rispose Carella. — Allora, cosa vuoi fare?
— Ho pensato che si potrebbe fare una colletta. Fra i ragazzi della Squadra e anche quelli di pattuglia. Basterebbe pochissimo a testa ogni settimana, e lei si troverebbe pagata meglio. Tu, che ne dici, Steve?
— Che puoi contare su di me.
— Vuoi dirlo anche agli altri?
— Senti...
— Io parlerò con quelli della pattuglia. Cosa stavi dicendo?
— Che sono un cattivo diplomatico, Miscolo.
— Ma non devi vendere niente! Si tratta solo di dare un piccolo aiuto a quella poveretta. È così irlandese, la vedessi, che mi fa piangere.
— Perché?
— Non lo so — rispose Miscolo. — Ma le irlandesi giovani mi commuovono. — Miscolo non era bello. Aveva un naso troppo grosso, e sopracciglia troppo folte, e il collo era così largo che la testa pareva spuntargli direttamente dalle spalle. Non era affatto bello, eppure in quel momento, quando disse quella cosa sulle giovani irlandesi, stringendosi nelle spalle con un movimento fanciullesco, sembrò bellissimo. Miscolo si accorse che Carella lo osservava e si mosse, impacciato. — Come faccio a saperlo — riprese. — Forse la prima ragazza che ho baciato era irlandese, chissà!
— Può darsi — disse Carella.
— Allora, parlerai coi ragazzi?
— Glielo dirò — promise Carella. — E la seconda cosa?
— Come?
— Hai detto che dovevi chiedermi due cose.
— Ah, sì. Tu vieni da fuori?
Carella accennò di sì con la testa.
— Com'è, fuori di qui?
— Come al solito — rispose Carella. Rimase con Miscolo ancora un paio di minuti, poi salutò, e attraversato il corridoio entrò nella sala agenti. Varcò il cancelletto a ringhiera, lanciò il panama verso l'attaccapanni, mancò il bersaglio, e stava per avviarsi a raccattarlo quando lo fece Bert Kling.
— Grazie — disse Carella. Incominciò a togliersi la giacca mentre si accostava alla scrivania di Meyer.
— Cos'era? — domandò Meyer.
— Ha tutta l'aria di essere un omicidio.
— Uomo o donna?
— Uomo.
— Chi è?
— Niente documenti — rispose Carella. — L'hanno accoppato con un colpo di fucile da caccia, sparato da vicino, secondo me. Indossava soltanto calze e scarpe. — Si strinse nelle spalle. — Sarà meglio che io faccia subito il rapporto. Non ho visto nessuno della Omicidi, Meyer. L'hanno accollato a noi?
— E chi lo sa? D'altronde, sanno che il cadavere appartiene ufficialmente al Distretto che ha avuto la fortuna di trovarlo.
— Be', allora questo è tutto nostro — commentò Carella, mettendo insieme originale e copia per il rapporto.
— Stanno facendo l'autopsia? — domandò Meyer.
— Sì.
— Quando avremo i risultati?
— Non so proprio. Che giorno è oggi?
Meyer si strinse nelle spalle. — Bert! Che giorno è oggi?
— Primo aprile — rispose Kling. — Steve, una signora ha...
— Che giorno della settimana? — domandò Meyer.
— Mercoledì — disse Kling. — Steve, ha telefonato una signora, circa un'ora fa. Ha detto qualcosa di una tintoria e di una contromarca. Ne sai niente?
— Sì, le telefonerò io più tardi.
— Allora, quando credi che ci daranno l'esito dell'autopsia? — tornò a chiedere Meyer.
— Domani, immagino. A meno che il medico legale non abbia un'insolita abbondanza di cadaveri da esaminare.
Andy Parker, seduto accanto alla colonnina dell'acqua, coi piedi sulla scrivania, abbassò la rivista che stava guardando e disse: — Sapete chi mi piacerebbe portare su un bel mucchio di fieno?
— Nessuno — rispose Carella, e incominciò a scrivere il suo rapporto.
— Spiritoso! — fece Parker. — Stavo guardando tutte queste fotografie di attrici. Be', ce n'è soltanto una che vale il mio tempo. — Si rivolse a Kling intento a leggere un libro. — Sai chi è?
— Silenzio, che sto cercando di leggere — disse Kling.
— Vorrei che qualcuno di voi cercasse di lavorare — commentò Meyer. — Questa sala agenti sta diventando una specie di circolo.
— Io sto lavorando — protestò Kling.
— Già, lo vedo.
— Queste sono storie sul metodo deduttivo.
— Sul che cosa?
— Sistema di indagini. Non hai mai sentito parlare di Sherlock Holmes?
— Tutti hanno sentito parlare di Sherlock Holmes — disse Parker. — Volete sapere quale di queste cavalline...
— Questo è un ottimo racconto — riprese Kling. — Lo hai letto, Meyer?
— Com'è intitolato?
— «La lega dei capelli rossi» — rispose Kling.
— No — rispose Meyer. — Non leggo mai romanzi polizieschi. Mi fanno sentire stupido.
Il rapporto sull'autopsia arrivò alla sala agenti soltanto nel pomeriggio di venerdì 3 aprile. E, come per magia, una telefonata dell'assistente del medico legale arrivò nell'esatto momento in cui la busta col rapporto veniva posata sulla scrivania di Carella.
— Ottantasettesima Squadra. Parla Carella.
— Ciao, Steve. Sono Blaney.
— Salve, Paul.
— Ti hanno portato l'esito della necroscopia?
— Non ne sono sicuro. Un tale con la tipica faccia pallida da ospedale ha appena messo una busta sul mio tavolo. Puoi aspettare un momento, che vedo?
— Certo — disse Blaney.
Carella aprì la busta e ne tolse il rapporto. — Sì — disse al telefono. — È questo.
— Bene. Senti, Steve: ho telefonato per scusarmi del ritardo, ma avevamo cadaveri dappertutto, e sai che c'è un diritto di precedenza a chi arriva per primo. Il vostro era quel tale del fucile da caccia, vero?
— Sì.
— Non posso sopportare le ferite di quel tipo — disse Blaney. — Non sono come quelle di altre armi da fuoco, l'hai mai notato? Specialmente quando il colpo viene sparato da vicino.
— Be', anche una quarantacinque non fa un buco molto bello da vedere.
— Neanche una trentotto, per questo. Ma c'è qualcosa di più mortale, nelle ferite di fucile da caccia. Non so come dire. Hai visto il diametro del foro nel petto del tuo cliente?
— Sì, l'ho visto — rispose Carella.
— Naturalmente, quando la bocca dell'arma posa sulla carne, è ancora peggio — riprese Blaney. — Ne ho visto certi, Steve, che non si potevano nemmeno guardare, credimi.
— Ti credo. — Blaney non rispose subito, e a Carella parve per un attimo di vedere davanti a sé gli occhi viola del medico, occhi impassibili, abituati all'ingrato lavoro di smembrare i cadaveri.
— Be', questa non era una ferita a bruciapelo — riprese Blaney — ma il colpo è stato sparato molto da vicino. Sai com'è fatta una cartuccia da fucile, no? Voglio dire che c'è uno stoppaccio di feltro che comprime la polvere nella cartuccia.
— Sì.
— Be', lo stoppaccio è finito nella scia.
— Quale scia?
— Quella dei pallini — rispose Blaney. — Ha percorso la stessa strada dei pallini, ed è finito nel petto della vittima.
— Oh! Capito.
— Proprio così. Puoi immaginarti, quindi, la violenza del colpo e quanto fosse vicino quello che ha sparato.
— Hai un'idea di che arma sia stata usata?
— Questo dovrai chiederlo al laboratorio — rispose Blaney. — Ho mandato là tutto quello che ho trovato. Ho mandato anche le scarpe e le calze. Mi rincresce d'aver tardato a farti il rapporto, Steve. Vuol dire che la prossima volta ti passerò davanti a tutti.
— Bene. Grazie, Paul.
— Altra bella giornata, oggi, eh?
— Già.
— Be', Steve, non voglio farti perder tempo. Arrivederci.
— Arrivederci — disse Carella. Posò il ricevitore e prese il rapporto arrivato dall'ufficio del medico legale. Non fu una lettura piacevole.
3
Tre dei quattro uomini che stavano facendo il poker, giocavano sulla parola. Non che a loro importasse gran che di perdere, soltanto era seccante, umiliante, perdere col quarto, quello che usava l'apparecchio acustico. Forse la sensazione era data dall'espressione d'ineluttabilità evidente sulla sua bella faccia. Un'espressione che dichiarava come, se anche la fortuna si fosse messa a sorridere loro, alla fine, il vincitore sarebbe stato lui.
Chuck, quello che si trovava maggiormente nei guai, guardò le sue carte con aria cupa, poi osservò il sordo, di fronte a lui. Questi indossava una giacca blu sui pantaloni di flanella grigia, e portava la camicia bianca aperta. Pareva che fosse appena sbarcato da uno yacht. Pareva che aspettasse di venir servito da un maggiordomo. E pareva anche aver in mano quattro carte molto buone. Giocavano a carte scoperte. Due dei giocatori si erano ritirati, lasciando in gara soltanto Chuck e il sordo. Guardando da sotto il braccio del sordo Chuck vide le tre carte scoperte: un fante di picche, una regina di fiori e un re di quadri. Si sentì quasi certo che la quarta carta era un asso o un dieci.
Lui aveva scoperto due assi e un sei di fiori. La quarta carta era un altro asso. Se la quarta carta dell'avversario era un dieci, allora il sordo aveva due probabilità di far scala, gioco non troppo facile da entrare. Se la quarta era un asso, allora le probabilità erano ancora ridotte. Chuck invece aveva la possibilità di fare full pescando un secondo sei, o di far poker con un quarto asso.
Una posizione abbastanza buona.
— Cento — disse Chuck.
— Altri cento — rilanciò il sordo.
— Vedo.
Chuck scoprì la carta dell'avversario: il dieci di cuori. Poi prese la sua: quattro di quadri.
— Cento — disse il sordo. E Chuck si sentì cadere le braccia.
— Va bene — disse. — Vedo.
Il sordo girò la sua quinta carta. Naturalmente era un asso.
— Credo di essere superiore al tuo tris — disse.
— Come facevi a sapere che avevo un tris? — domandò Chuck, guardando l'altro ritirare la sua vincita.
— Dalle puntate. Non avresti fatto cento con una coppia. Quindi ho pensato che la carta coperta doveva essere un terzo asso.
— E hai rilanciato sulla debole probabilità di una scala?
— Sulla forza delle probabilità, Chuck — ribatté il sordo ammucchiando ordinatamente le sue fiches.
— Macché — protestò Chuck. — Questa è fortuna. Fortuna sfacciata.
— No, non del tutto. Io avevo quattro carte di scala: un fante, una regina, un re, un asso. Quindi mi serviva un dieci, per battere il tuo tris. Giusto? E quante erano le mie probabilità di fare scala? Una a nove.
— Be', continua a sembrarmi strano che il gioco ti sia venuto.
— Dimentichi che non c'era nessun dieci fra le carte scoperte. Non l'avevi né tu, e né gli altri due. D'accordo che uno degli altri poteva averlo in mano. Ma tu avevi un asso in mano, o non avresti puntato tanto. Quindi, restavano solo le probabilità degli altri due.
— Però avresti potuto non pescare il dieci.
— E in questo caso avrei perso. Ma la tua possibilità di vincere era ancora più remota della mia.
— E perché? Avevo tre assi!
— Sì, ma che cosa ti serviva, per completare il gioco? O un quarto asso per far poker, o un secondo sei per fare full. Io sapevo che non avresti pescato l'asso perché l'avevo io, e in ogni caso le tue probabilità di pescarlo erano di uno a trentanove. Molto meno che non le mie di uno a nove, non ti pare?
— Ma avrebbe potuto venirmi un sei.
— Vero. Le possibilità che ti venisse però erano di uno a quattordici e due terzi. Sempre meno del mio uno a nove. Inoltre i nostri due amici avevano due sei fra le carte scoperte, perciò nel mazzo ne restava uno solo, quindi diventava difficile quanto pescare un quarto di asso, e le probabilità discendevano così a una su trentanove. Hai capito, Chuck?
— Non stai dimenticando qualcosa?
— Io non dimentico mai niente — ribatté il sordo.
— Invece stai dimenticando la possibilità che nessuno di noi due completasse il suo gioco. Nel qual caso avrei vinto io perché tre assi sono superiori a una scala incompleta.
— Vero. Ma non è che l'abbia dimenticato. Questo era soltanto un rischio calcolato. In ogni caso, penso d'aver giocato bene.
— Continuo a pensare che sia stata la fortuna — commentò Chuck.
— Può darsi — rispose sorridendo il sordo. — Comunque io ho vinto, no?
— Certo. E siccome hai vinto, te ne sei venuto fuori con la storia di tutti quei calcoli delle probabilità.
— Sono calcoli che ho effettivamente fatto, Chuck.
— Dici di averli fatti. Ma se avessi perso, avresti trovato il modo di spiegare e giustificare il tuo errore.
— Difficilmente ammetto d'aver sbagliato — disse il sordo. — Il vocabolo «errore» non esiste nel mio vocabolario.
— No? E come li chiami, allora, gli sbagli?
— Deviazioni. La realtà è una costante, Chuck. Solo l'osservazione della realtà è variabile. L'enormità di un errore dipende dalla differenza fra l'immutabile realtà e la maggior o minor fedeltà dell'osservazione. Quindi l'errore può solo venir definito deviazione e non sbaglio.
— Oh, al diavolo! — esclamò Chuck, e gli altri risero.
Il sordo rise con loro, poi disse: — Vuoi fare le carte, Rafe?
L'uomo alto e snello seduto alla sinistra di Chuck sollevò gli occhiali dalla montatura d'oro, e si passò la destra sugli occhi, poi radunò le carte e cominciò a mischiare.
Il quarto giocatore si sentiva un po' impacciato, in quella compagnia. Era nuovo del gruppo, non sapeva ancora esattamente chi avesse sostituito, né perché avessero chiamato lui nel quartetto. Una sola delle sue qualità poteva essere utile al gruppo, proprio quella che lui aveva smesso di considerare una qualità almeno dieci anni prima: sapeva fabbricare bombe. Bombe vere. Il vecchio seduto a quel tavolo con gli altri tre aveva una volta ceduto il suo eccezionale talento in esplosivi a una potenza straniera, e per questo suo peccatuccio aveva trascorso parecchi anni in prigione. Ma il sordo non aveva fatto domande sui suoi precedenti politici, quando lo avevano assunto. Al sordo bastava sapere che l'uomo sarebbe stato ancora in grado di fabbricare una bomba incendiaria o esplosiva, se fosse stato necessario, prospettiva che lui pareva gradire immensamente. Altro, il vecchio non sapeva.
Non sapeva neanche di dovere la propria assunzione all'età. Pop aveva sessantatré anni. L'età perfetta per quel lavoro.
Le carte vennero distribuite, e furono stabilite nuove regole al gioco.
— Non mi piace, questo imbastardimento del poker — osservò il sordo.
— Bene — disse Chuck — così avremo la probabilità di vincere noi. Tu giochi a poker come se dovessi tagliar la gola a tua madre.
— Io gioco al poker come se dovessi vincere — ribatté il sordo. — Non è il giusto modo?
Rafe rise e gli occhi gli si inumidirono dietro le lenti.
— Venticinque — disse il vecchio, esitante.
— Leggo — disse Chuck.
— Vedo — disse Rafe.
Il sordo studiò le sue carte. Aveva in mano un sei e un fante. La sua carta scoperta era un cinque. Guardò rapidamente le carte degli altri, e altrettanto rapidamente raccolse e mise in disparte le sue.
— Passo — disse.
Restò seduto ancora un paio di secondi, poi si alzò di scatto. Era alto, con una bella figura, e si muoveva con la leggerezza e la scioltezza di un atleta. Doveva avere trentasette o trentotto anni. I capelli biondi erano tagliati corti, e aveva gli occhi d'un azzurro cupo. Quegli occhi si fissarono sulla strada attraverso la porta a vetri sulla quale appariva una scritta capovolta:
La strada era tranquilla. Dietro il magazzino, invece, c'era il caos. Scavatrici, gru, squadre di operai indaffarati.
— Sarà meglio che facciate l'ultima mano — disse il sordo. — Abbiamo un sacco di lavoro.
Rafe approvò con un cenno. Chuck raccolse le carte, mischiò e distribuì. Il vecchio passò.
— Volete venire con me un momento? — gli disse il sordo.
— Certo — rispose Pop.
Spinta indietro la sedia, si alzò e seguì il sordo oltre la porta che conduceva in cantina. Il sotterraneo era freddo e sapeva di muffa. Odore di terra fresca veniva dalle pareti. Il sordo andò a un lungo tavolo e aprì una scatola. Ne trasse una specie di divisa grigia. — Metterete questa, Pop, stanotte, mentre noi lavoreremo. Volete provarla?
Pop prese gli indumenti e vi passò sopra le dita con cura, come se stesse scegliendo un vestito in un negozio. Le sue dita si fermarono di colpo, mentre gli occhi si spalancavano.
— Non posso metterla — disse.
— Perché? — domandò il sordo.
— Non posso. No. Non la metto.
— Ma perché?
— C'è del sangue, qui!
Per un attimo, parve che il sordo stesse per perdere la calma. Poi sorrise.
— Va bene — disse. — Ve ne procurerò una nuova.
Riprese l'uniforme grigia e tornò a metterla nella scatola.
4
Una fotografia del morto non identificato venne pubblicata su tre giornali del pomeriggio di giovedì 9 aprile. Uno la riportò in prima pagina, gli altri la relegarono alla pagina quattro, ma tutti col titolo a grandi caratteri che chiedeva: «Conoscete quest'uomo?». L'uomo nella fotografia sembrava ritratto con gli occhi chiusi, e il fotografo della polizia aveva provveduto a coprire con abile ritocco le sue più compromettenti nudità, col risultato che le scarpe nere e le calze bianche facevano ancora più effetto con i calzoncini posticci.
«Conoscete quest'uomo?» leggeva il lettore, poi guardava la fotografia d'un vecchio originale, probabilmente ritratto mentre dormiva su una panchina, e pensava che si trattasse di qualche pubblicità. Poi leggeva la didascalia sotto la foto, e veniva informato che l'uomo non dormiva ma era morto quanto si può esserlo, e che la strana chiazza sul petto non era un tatuaggio ma una ferita di fucile dovuta a qualcuno dall'indice facile.
I giornali apparvero nelle edicole a mezzogiorno in punto.
Alle dodici e un quarto, Cliff Savage fece la sua comparsa nell'atrio dell'87° Distretto. Vestito in modo irreprensibile, un panama scuro spinto indietro sulla nuca, un fazzoletto bianco svolazzante dal taschino della giacca, Savage puntò i gomiti sulla scrivania del sergente di servizio e annunciò: — Mi chiamo Savage. Sono un giornalista. — Buttò sul ripiano un giornale con la fotografia del morto non identificato, e aggiunse: — Chi si occupa del caso?
Il sergente Dave Murchison guardò la foto, emise una specie di borbottìo, alzò la testa a osservare Savage, borbottò di nuovo, poi disse: — Come avete detto di chiamarvi?
— Cliff Savage.
— Di che giornale siete?
Savage sospirò, e tolse una tessera dal portafoglio. Mise la tessera sulla scrivania, accanto alla foto del morto. Murchison guardò la tessera, brontolò per la terza volta, e disse: — Se ne occupa Steve Carella. Mi sbaglio o il vostro nome è conosciuto, qua dentro?
— Provate a indovinare — ribatté Savage. — Voglio vedere Carella. C'è?
— Adesso vedo.
— Non vi disturbate. Vado su io — disse Savage.
— Neanche per sogno, signore. Frenate il cavallo, perché la vostra tessera di giornalista non basta, come lasciapassare. — Murchison prese una delle spine del centralino e la innestò. Dopo un momento di attesa, disse nel microfono: — Steve, sono Dave. Un tale che si chiama Cliff Savage è qui da me. Dice di essere un giornalista e vuol... Come?... Bene. — Posò il ricevitore, e staccò la spina. — Ha detto di andarvi a impiccare, signor Savage.
— Ha detto questo?
— Parola per parola.
— Ma che razza di maniere sono queste! — protestò Savage.
— Presumo che non gli siate molto simpatico.
— Volete chiamarlo e lasciare che gli parli io?
— Steve non gradirebbe certamente la sorpresa, signor Savage.
— Allora datemi il tenente Byrnes.
— Il tenente non c'è, oggi.
— Chi comanda, allora, qui?
— Steve Carella.
Savage riprese la sua tessera e, senza aggiungere altro, uscì. Voltò a destra nella prima traversa e camminò per due isolati fino a un negozio. Andò al banco a farsi cambiare un dollaro, poi entrò nella cabina telefonica, tolse di tasca un'agenda, cercò il numero di telefono dell'87° Distretto, non lo trovò, provò a cercare sotto Peter Byrnes, e scoprì il numero dell'87°: Frederick 7-8024. Infilò la monetina nella scanalatura e compose il numero.
— Ottantasettesimo Distretto, parla il sergente Murchison — rispose una voce,
— Oggi avete fatto pubblicare la fotografia d'un morto, sui giornali — disse Savage.
— Sì. Cosa desiderate?
— So chi è quell'uomo. Vorrei parlare con chi s'interessa del caso.
— Un momento — rispose Murchison.
Savage sogghignò e attese. Dopo pochi secondi, sentì un'altra voce.
— Ottantasettesimo Distretto. Qui Steve Carella.
— Siete incaricato del caso di quel morto trovato nel parco?
— Esatto — rispose Carella. — Chi parla, per favore?
— Siete voi che avete mandato la fotografia ai giornali?
— Sì. Il sergente di servizio mi ha detto...
— Perché non l'avete mandata anche al mio giornale, Carella?
— Cosa... — Una pausa piuttosto lunga, poi: — Siete voi, Savage?
— Già, proprio io.
— Non vi hanno riferito il mio messaggio?
— Sarebbe stato scomodo, per me, andarmi a impiccare in questo momento.
— Sentite, Savage, io non sono molto educato, comunque cercherò di essere più chiaro possibile. Voi, razza di bastardo, una volta avete quasi fatto ammazzare mia moglie, perciò non mostrate qui attorno la vostra faccia o vi farò volare dalla finestra. Sono stato chiaro abbastanza?
— Forse il capitano gradirà di sapere che ogni altro giornale della città...
— Andate all'inferno, voi e il capitano insieme. Buonanotte, Savage. — E Carella riattaccò.
Savage tenne ancora in mano il ricevitore per qualche secondo, poi lo riagganciò con malagrazia e schizzò fuori dal negozio.
La ragazza portoricana si chiamava Margarita. Si trovava in città da sei mesi circa e non parlava bene l'inglese. Margarita era contenta di lavorare per il signor Raskin, perché lui era una brava persona e non gridava troppo. Per Margarita, questo era importante. La ragazza abitava a soli cinque isolati dalla soffitta di Culver Avenue, dove lavorava, e le faceva piacere quella breve passeggiata quotidiana prima dell'inizio e dopo la fine della giornata di lavoro. Quando arrivava alla soffitta, Margarita andava nel bagno e cambiava gli abiti da strada col grembiule che usava per stirare. Dal momento che abitava così vicino, una volta qualcuno le aveva suggerito di non cambiarsi nemmeno, per andare a casa, ma lei pensava che il camiciotto non fosse adatto per camminare in strada, e così continuava ogni mattina a uscire di casa con una gonna e un golf, e a cambiarsi nella soffitta. Non teneva gran che, sotto il grembiule, perché stirava tutto il giorno, e nella soffitta faceva molto caldo. Margarita era una bella ragazza, con un bel corpo, e questo lo si vedeva anche col camiciotto da lavoro, e un'altra cosa che le piaceva del signor Raskin era che lui non allungava mai le mani. Una volta le era capitato di lavorare per un tale che aveva quell'abitudine. Il signor Raskin, invece, era proprio una brava persona che teneva le mani a casa sua, e poi non gli importava che le ragazze chiacchierassero di tanto in tanto in spagnolo fra loro, dal momento che lavoravano anche parlando.
C'erano altre due ragazze, oltre a Margarita, ma lei era un po' come una direttrice. Ogni mattina, mentre le altre si cambiavano e bevevano il loro caffè, lei toglieva i vestiti dagli scatoloni e li preparava perché venissero stirati in modo da far scomparire tutte le pieghe, poi si metteva d'accordo col signor Raskin sul prezzo dei vestiti, quindi, a stiratura finita, lei e le ragazze marcavano ogni capo. La sera, il signor Raskin portava gli abiti ai negozi della città o ai mercati, a seconda della richiesta. Qualche volta, quando discutevano sui prezzi, il signor Raskin allungava il collo per sbirciare nella sua scollatura, ma a Margarita non importava molto che lui guardasse, dal momento che non si arrischiava a toccare. Sì, il signor Raskin era un gentiluomo, e a Margarita piaceva lavorare per lui. Per quanto la riguardava, il signor Raskin era l'uomo migliore del mondo.
Per questo, lei non poteva capire quelle telefonate minacciose.
Perché mai qualcuno doveva minacciare il signor Raskin? Soprattutto per una cosa di nessun valore come quella soffitta. No, Margarita non riusciva a capire, e ogni volta che l'uomo telefonava lei tremava di paura per il suo principale, e in cuor suo diceva per lui una preghiera in spagnolo.
Margarita però non era spaventata, quel pomeriggio di giovedì 9 aprile, quando arrivò il fattorino.
— Non c'è nessuno? — domandò l'uomo dalla porta.
— Un minuto — gridò in risposta Margarita, poi depose il ferro e attraversò di corsa la lunga soffitta fino all'ingresso senza pensare che sotto il camiciotto non indossava niente. E siccome non se ne ricordava, rimase stupita dall'espressione del fattorino.
L'uomo trasse di tasca un fazzoletto e si asciugò la fronte.
— Sapete una cosa? — disse l'uomo, senza fiato.
— Che cosa? — domandò Margarita sorridendo.
— Dovreste fare la rivista. Sareste un successone.
— E che cos'è la ri... rivista?
— Oh, ragazza mia! — esclamò l'uomo, facendo roteare gli occhi. — Sentite, dove devo mettere queste scatole? — domandò, puntando lo sguardo sulla punta della scollatura del grembiule. — Ho giù da basso quattordici scatole da consegnare.
— Oh, non so — rispose Margarita. — Il mio capo ora non è qui.
— Ma io voglio soltanto sapere dove posso sistemare quella roba.
— E che cosa è quella roba?
— Non lo so, sorellina. Io lavoro per l'agenzia di trasporti. Andiamo, scegliete un posto che vi vada bene.
— Oh, io penso che potete mettere vicino alla porta... O... Okay?
— Okay, sorellina — disse l'uomo, e tornò da basso. Ricomparve pochi minuti più tardi con un altro, reggendo un pesante scatolone. Il secondo uomo per poco non si lasciò schiacciare le dita fra la scatola e il pavimento, nel guardare Margarita. Impiegarono un'ora e mezzo per portar su tredici scatoloni e per guardare la ragazza fra un viaggio e l'altro.
Stavano sistemando il quattordicesimo, quando arrivò il signor Raskin.
— Che cos'è questa roba? — domandò.
— Voi chi siete? — disse l'uomo dell'agenzia.
— Chi siete voi piuttosto! — ribatté Raskin. — E volete dirmi cosa c'è in queste scatole?
— Siete il signor Dave Raskin?
— Sì.
— Della Darask Frocks, Inc.?
— Sì. E allora?
— E allora questi sono vostri.
— Cosa c'è dentro?
— Ah, non chiedetelo a me. Noi siamo soltanto dell'agenzia trasporti. Ma forse c'è scritto sulle scatole.
Raskin lesse la scritta sul fianco degli scatoloni. — Dice «Sandhurst Paper Company, New Bedford, Massachusetts». — Raskin scosse la testa. — Non conosco nessuna Sandhurst di New Bedford. Cos'è questa storia?
Gli uomini dell'agenzia non avevano nessuna fretta d'andarsene. Margarita stava stirando con gran foga, ed era una foga deliziosa da guardare.
— Perché non aprite una delle scatole? — suggerì uno dei fattorini.
Il secondo approvò con un cenno piuttosto distratto. — Già. Perché non provate ad aprirne una?
— Ma farò bene ad aprire?
— Eh, direi! È roba indirizzata a voi!
— Eh, direi! — ripeté il secondo.
Raskin cominciò ad armeggiare attorno all'imballaggio. I due uomini dell'agenzia sedettero sull'orlo della sua scrivania a guardare l'agitarsi di Margarita sul ferro da stiro.
Finalmente Raskin venne a capo delle due listerelle metalliche, ribaltò un lato dello scatolone, sollevò il lato più largo e trovò all'interno dell'imballaggio altre scatole più piccole, simili a quelle per scarpe. Ne tolse una, la posò sul ripiano della scrivania e poi sollevò il coperchio. La scatola era piena di buste.
— Buste? — disse Raskin.
— Sono proprio buste — approvò il primo fattorino.
— Già — disse il secondo.
— Ma chi ha ordinato queste... — incominciò Raskin, e si interruppe di colpo. Tolse una busta dalla scatola, la girò e lesse la scritta stampata sul lembo di chiusura. Diceva: «David Raskin, Soffitta Libera Inc., Isola».
— Aprite un nuovo negozio? — domandò il primo fattorino.
— Portate indietro questa roba — esclamò Raskin. — Io non l'ho ordinata.
— Non possiamo, signore. Avete già aperto l'imballaggio!
— Portatela indietro — ripeté Raskin, e tirò a sé il telefono.
— Chi chiamate? — domandò il secondo fattorino. — La Ditta?
— No — rispose Raskin. — La polizia.
Teddy Carella indossava una vaporosa vestaglia quando suo marito rincasò quella sera. Lui la baciò, attraversò il grande atrio della immensa casa dove vivevano, e non si rese conto che lei era abbigliata in modo eccezionale se non quando fu in cucina. Poi, sorpreso che la casa fosse tanto silenziosa alle sei e mezzo del pomeriggio, sorpreso che Teddy indossasse la sua vestaglia di seta, le domandò: — Dove sono i bambini?
Le mani di Teddy risposero silenziosamente: «A dormire».
— E Fanny? — domandò ancora Steve.
Le mani si mossero ancora. «Giovedì.»
— Ah, già. La sua giornata di libertà — e di colpo comprese. Allora fece finta di non vedere la bottiglia di spumante messa nel frigorifero, quando Teddy ne aprì lo sportello, fece finta di non notare l'atteggiamento decisamente femminile di Teddy né il suo penetrante profumo, e nemmeno che lei si era. truccata gli occhi, grandi e neri nel visino ovale, mentre non aveva traccia di rossetto sulle labbra che sembravano ansiose di baci. Andò in bagno a lavarsi, poi si liberò della fondina con la rivoltella, e la depose nel primo cassetto dell'armadio, in camera da letto, indossò una camicia pulita, e tornò da basso.
Teddy aveva preparato la tavola sotto il porticato. Una folata d'aria sollevò un lembo della lieve vestaglia scoprendole le lunghe gambe, ma lei non fece alcun gesto per coprirsi.
— Indovina in chi sono incappato oggi — disse Carella, poi si accorse che Teddy gli voltava la schiena, e che perciò non poteva rispondere. La prese delicatamente per le spalle facendola girare, e subito gli occhi di Teddy si posarono sulle sue labbra.
— Indovina in chi sono incappato oggi — ripeté Steve Carella. Teddy inarcò le sopracciglia in un'espressione interrogativa. Teddy Carella comunicava in molti modi col marito. A volte era un batter di ciglia e un lieve moto della bocca, a dirgli ciò che pensava; altre volte erano rapidi cenni delle mani; altre ancora, bastava l'espressione degli occhi. Il viso della donna, di un ovale perfetto, con grandi occhi e bocca tumida, era circondato da riccioli neri, intonati alla sua faccia, e al suo corpo, snello e morbido, dalla vita sottile. Teddy Carella aveva il corpo di una barbara superba e la dolcezza di una schiava devota. E Steve l'amava, soprattutto quando i suoi occhi «parlavano».
Teddy inarcò le sopracciglia, poi riabbassò lo sguardo sulle labbra del marito.
— Cliff Savage — disse lui.
Lei ripiegò la testa di lato, poi si strinse nelle spalle e scrollò i riccioli.
— Savage. Il giornalista. Ricordi?
E allora Teddy ricordò, di colpo, e le sue mani si mossero rapide a far domande. «Che cosa voleva? Dio mio, quanti anni sono passati? Ricordi cos'ha fatto quel pazzo? Non eravamo ancora sposati allora, Steve. Eravamo così giovani! Ricordi?»
— Una cosa per volta, va bene? — disse Carella. — Era fuori di sé perché ho mandato la fotografia di quell'uomo non identificato a tutti i giornali tranne il suo. Sapevo che la cosa l'avrebbe punto, e così è stato. Sai, tesoro, credo che non si sia mai reso conto appieno di quello che ha fatto. Penso che non abbia capito che avrebbe potuto farti uccidere.
Carella scosse la testa.
Quello che era successo alcuni anni prima aveva riempito i giornali di allora. Savage, il giornalista, aveva affermato che un certo agente investigativo, di nome Steve Carella, aveva confidato alla propria fidanzata, Teddy Franklin, i suoi sospetti su una serie di delitti che avevano avuto dei poliziotti come vittime. Per di più, Savage aveva anche pubblicato l'indirizzo di Teddy: così fu come se fosse stato lui in persona a guidare, tenendolo per mano, l'assassino nell'appartamento di Teddy. E Teddy si era salvata per un pelo.
«Eravamo così giovani» dissero ancora le mani di Teddy, e Steve la prese fra le braccia. Lei gli si strinse contro, quasi con disperazione, mentre calde lacrime bagnavano il collo di Steve.
— Ehi, cosa ti succede? — disse lui. Teddy singhiozzava tenendo la faccia premuta contro la sua spalla in modo che non poteva «sentirlo».
Steve la costrinse a sollevare la testa. — Cosa c'è? — domandò.
Lei scosse i riccioli.
— Stanca della tua vita casalinga? — domandò lui.
Teddy non rispose.
— Stanca delle nostre quattro pareti?
Ancora nessuna risposta.
— Tesoro, cosa ti succede? Guarda, ti si stanno sciogliendo gli occhi, dopo tutta la fatica che hai dovuto fare per truccarli!
Teddy si raddrizzò con aria offesa, e le sopracciglia si abbassarono mentre la sua destra saliva a parlare. «I miei occhi.»
— Sì, tesoro?
«Allora tu te n'eri accorto! E probabilmente ti sei accorto anche di tutto il resto!»
— Cara, si può sapere perché tutto questo...
«Zitto! E va' via da me!»
Ma le braccia di Steve la tennero stretta, e dopo aver lottato un po' per liberarsi, Teddy si arrese. Allora Steve incominciò a parlare piano mentre le dita sensibili di Teddy posate sulle sue labbra ne «ascoltavano» ogni parola.
— Dunque, qualche volta ti senti come una vecchia signora — disse Steve. — Te ne stai qui in casa a trafficare tutto il giorno nella tua tuta, a correre dietro ai gemelli, a toglier loro di bocca i mozziconi di sigarette che trovano in giro, e a domandarti quando mai il tuo avventuroso marito tornerà a casa, e allora pensi che non sia più come una volta, come quando eravamo giovani e gli occhi mi uscivano dalle orbite ogni volta che ti vedevo!
Teddy lo guardava in modo solenne chiedendosi perché mai, a volte, lui sembrasse tanto insensibile, e interessato soltanto al suo lavoro, preoccupato dei guai della Squadra che finiva col portarsi fino a casa, così che lei si sentiva sola nel proprio mondo silenzioso, priva del conforto dell'uomo che era stato l'unica luce della sua vita, e poi improvvisamente lui tornava a essere quello che lei conosceva, il suo Steve, che capiva tutto ciò che lei provava, che sentiva come lei.
— E così vorresti che fosse ancora come allora, che fossimo ancora i pazzi ragazzi di una volta. Ma non siamo più ragazzi, Teddy! Per questo oggi hai mandato a letto presto i bambini, e ti sei vestita così per me! Io ti amo, Teddy! Ti amo in qualunque modo ti veda. Con addosso un sacco di patate, con la tuta sporca della terra del giardino, quando ti occupi dei bambini, quando fai da mangiare, quando ridi e quando piangi. Ti amo ogni giorno di più, e non soltanto quando indossi una vestaglia trasparente! E adesso togli le dita dalle mie labbra perché voglio darti un bacio.
Poi non parlarono più. Lui non le chiese più niente. La strinse a sé, e scomparvero le insegne luminose della città, e il frastuono dei clacson, e il rumore del traffico. Ci fu solo il cielo, sopra di loro, e a Steve parve di cadere verso i confini del mondo. E da come Teddy si tenne avvinta a lui, capì che anche lei provava la sua stessa sensazione.
5
Quel venerdì 10 aprile, la sala agenti sperimentò la sua massima capienza. A volte accadeva che lì dentro non ci fosse nessuno con cui parlare, quando tutti, o quasi, quelli della Squadra erano fuori per qualche indagine. Ma, quel venerdì, la vecchia sala agenti era senz'altro il luogo più affollato di Grover Avenue. Agenti investigativi, uomini di pattuglia, il tenente, il capitano, staffette della Centrale, cittadini venuti a sporgere denunce... Pareva che si fossero dati tutti appuntamento lì, quella mattina. I telefoni squillavano freneticamente e le macchine per scrivere ticchettavano senza interruzione.
Alla scrivania accanto alle finestre che davano sulla strada, Meyer Meyer parlava al telefono con Dave Murchison, il sergente di servizio.
— Esatto, Dave — disse Meyer. — La «Sandhurst Paper Company» di New Bedford, nel Massachusetts. Cosa?... E come diavolo faccio a sapere dov'è New Bedford? Penso che si trovi fra Old Bedford e Middle Bedford. Di solito funziona così, la disposizione delle città con lo stesso nome, no? — Una pausa. — Bene. Chiamami appena sono in linea. — Depose il ricevitore e sollevò la testa per trovare Andy Parker in piedi accanto alla scrivania.
— Ci sono anche East Bedford e West Bedford — disse Parker.
— E Bedford Center — aggiunse Kling.
— Voi non avete altro da fare che bighellonarmi attorno? — domandò Meyer. — Se in questo momento entrasse il Gran Capo?
— Impossibile — rispose Parker. — È nella città bassa a fare le sue ispezioni. Non verrebbe mai a visitare una lurida sala agenti come questa. Laggiù gli forniscono un gruppo scelto di agenti che ogni mattina hanno il dovere di ridere alle sue barzellette.
— Tranne il venerdì, sabato e domenica — disse Bert Kling. — Oggi è venerdì.
— Esatto — fece Meyer. — Quindi, come vedi, potrebbe benissimo capitare qui, e ti troverebbe a girare i pollici.
— Il fatto è che io sono venuto soltanto a vedere se c'era qualche messaggio per me — ribatté Parker. — Forse non ve ne siete accorti, ma sono vestito per un appostamento, ed esattamente... — guardò il suo orologio da polso — fra quarantacinque minuti lascerò soli lor signori, per andare a prendere posizione in una drogheria.
— Come pretendi di...
— Perciò, non valgono le battute sul mio far niente o far qualcosa. Alle dieci e mezzo me ne vado, ecco tutto.
— Già, ma in che modo pretendi di essere vestito? — domandò Meyer.
La domanda non era fatta per scherzo. Per quanta serietà Parker avesse impiegata nello scegliere l'abbigliamento adatto al suo lavoro di quel giorno, aveva l'aspetto di sempre. C'è gente che nasce con l'aria sciatta, e non c'è niente da fare. Sono così fin da bambini. Vengono magari vestiti bene, a posto, per la festa del loro compleanno, e cinque minuti dopo sembrano usciti da sotto un rullo compressore, e non perché si siano rotolati per terra o arrampicati sugli alberi. Macché. Semplicemente perché sono fatti così.
Come Parker. Cinque minuti dopo essersi lavato e sbarbato, pareva che avesse bisogno di andare a lavarsi e sbarbarsi. Dieci minuti dopo aver infilato con cura la camicia nei pantaloni, la camicia pendeva fuori dalla cintura come se non fosse mai stata infilata. Un quarto d'ora dopo aver lucidato le scarpe, le scarpe erano opache di nuovo. Era fatto così. Comunque, questo non faceva necessariamente di lui un cattivo poliziotto. Il fatto che Andy Parker fosse un cattivo poliziotto non aveva niente a che fare con la sua natura sciatta. Era sciatto e cattivo poliziotto, ma i due fenomeni non erano connessi.
Comunque, il tenente Byrnes aveva messo Andy Parker di servizio in una drogheria sull'Undicesima Strada perché pescasse quei clienti che avevano preso l'abitudine di intascare i pacchetti senza pagare. Andy Parker si era messo in testa d'abbigliarsi come se fosse una specie di venditore ambulante. Ne aveva visti tanti, e pensava di sapere che aspetto avevano. Il risultato era che un osservatore avrebbe tratto la conclusione che un venditore ambulante aveva l'aspetto di Andy Parker. In ogni caso, Meyer, pur avendolo osservato bene, lo trovò assolutamente uguale al solito.
— Non dirmi niente — disse Meyer Meyer. — Voglio indovinare da solo da che cosa ti sei travestito. — Aggrottò pensoso le sopracciglia, e dichiarò: — Un deputato che va a far spese. Giusto?
— Vorrebbe sembrare un deputato — rincarò Kling. — Solo che ha dimenticato il garofano all'occhiello.
— Andiamo, non mi prendete in giro — protestò Parker, serio.
— Allora, vediamo che cos'altro potresti essere — riprese a dire Meyer Meyer. — Ci sono! L'usciere a un matrimonio di lusso.
— Andiamo! Non capite niente — commentò Parker proprio nel momento in cui il tenente Byrnes spingeva il cancelletto ed entrava nella sala agenti.
— Questo maledetto quartiere sta per diventare il più grande problema del traffico — brontolò il tenente. — Mancavano soltanto le macchine degli operai del cantiere qui accanto. Non voglio neanche pensare a come sarà una volta finito il nuovo centro commerciale che stanno costruendo. — Byrnes scrollò la testa e si rivolse a Parker. — Non dovresti essere in quella drogheria, tu?
— Alle dieci e mezzo — rispose Parker.
— Non ti ammazzerà nessuno, se arriverai un po' prima.
— È già stabilito che a me piace dormire, il mattino.
— Questo è stato stabilito lo stesso giorno in cui hai preso servizio alla Squadra — osservò Byrnes. — Comunque, stavo dicendo che sarà un bel guaio con le nuove costruzioni. Il capitano Frick dovrà mettere a disposizione almeno altre sei macchine di pattuglia per tener d'occhio la zona. Avete visto i cartelloni con l'elenco dei luoghi pubblici di prossima inaugurazione? Un cinema, un supermarket, una banca, un magazzino di vendita al minuto, una rosticceria e un negozio di specialità alimentari.
— Ecco perché l'hanno fatto tenente — commentò Meyer. — Perché non gli sfugge nulla.
— Vai al diavolo! — rispose Byrnes ridendo, e passò nel suo ufficio. Ma si riaffacciò subito. — C'è Steve?
— Non ancora — rispose Meyer.
— Chi è di servizio interno, oggi?
— Io — rispose Bert Kling.
— Allora fammi sapere appena arriva Steve.
— Sì, signore.
Il telefono sulla scrivania di Meyer mandò il suo richiamo. Lui si affrettò a sollevare il ricevitore. — Ottantasettesimo Distretto, agente Meyer... Oh, sì, Dave, passameli. — Coprì il microfono con la mano e disse a Kling: — La mia telefonata di New Bedford — poi aspettò.
— L'agente Meyer? — domandò una voce.
— Sì.
— Un attimo, prego.
Meyer aspettò.
— Parlate pure — disse il centralinista.
— Pronto? — disse Meyer.
Una voce impersonale annunciò dall'altro capo del filo: — Buongiorno, signore. Qui la «Sandhurst Paper Company».
— Buon giorno — rispose Meyer. — Sono l'agente investigativo Meyer dell'Ottantasettesimo Distretto di...
— Buongiorno, agente Meyer.
— Buongiorno. Vorrei rintracciare un'ordinazione che è stata...
— Un attimo, prego. Vi passerò il nostro Ufficio Vendite.
Meyer aspettò, e poco dopo l'annunciato attimo sentì una voce maschile.
— Ufficio Vendite. Buongiorno.
— Buongiorno. Sono l'agente investigativo Meyer dell'Ottantasettesimo Distretto di...
— Buongiorno, agente Meyer.
— Buongiorno! Spero che possiate aiutarmi, signore. Un certo signor David Raskin domiciliato qui a Isola, ha ricevuto diverse scatole di buste e fogli usciti dalla vostra Ditta, ma lui non ha mai fatto quell'ordinazione. Sareste in grado, voi, di dirmi chi l'ha fatta?
— Volete ripetermi il nome, signore?
— David Raskin.
— E l'indirizzo?
— Darask Frocks, Inc. Culver Avenue 1213.
— E quando è stata consegnata la merce?
— Ieri.
— Un attimo, prego.
Meyer aspetto. Mentre aspettava, entrò Steve Carella. Meyer coprì il ricevitore e disse: — Steve, il tenente vuol vederti.
— Va bene. Ha telefonato il laboratorio?
— No.
— Qualche novità sulla fotografia?
— Neanche mezza. Ma da' tempo al tempo. È stata pubblicata solo ie... Pronto?
— Agente Breyer? — disse la voce maschile nel telefono.
Meyer non perse tempo a correggere. — Sì?
— Quell'ordinazione è stata fatta dal signor David Raskin.
— Quando, per favore?
— Dieci giorni fa. Di solito impieghiamo da una settimana a dieci giorni per espletare un ordine.
— Allora è stato il primo aprile?
— Il trenta marzo, per essere esatti, signore.
— L'ordine è stato fatto per lettera?
— No, signore. Il signor Raskin ha telefonato personalmente.
— Dunque, avrebbe telefonato per ordinare fogli e buste?
— Sì, signore, esatto.
— E come vi è sembrato?
— Come, signore?
— Che voce aveva l'uomo che ha telefonato?
— Una bella voce, penso. Non è facile ricordare tutte le telefonate.
— Non ricordate niente di particolare?
— Be', noi riceviamo molti ordini, e capirete...
— Sì, capisco. Bene, vi ringrazio molto.
— Però, c'era una cosa...
— Che cosa, signore?
— Il signor Raskin mi ha chiesto di parlare più forte. Sì, durante la conversazione mi ha detto: «Scusate, ma potreste parlare più forte? Sono un po' sordo».
— Capisco — rispose Meyer stringendosi nelle spalle. — Grazie mille.
Cominciò a suonare il telefono sulla scrivania accanto a quella di Meyer.
Andy Parker, che non aveva da far altro che ammazzare ancora un po' di tempo, rispose.
— Ottantasettesimo Distretto. Agente Parker.
— C'è Carella? — chiesero dall'altro capo del filo.
— Sì, un momento. Chi lo vuole?
— Peter Kronig, del laboratorio.
— Un attimo, Kronig. — Parker posò il ricevitore e tuonò: — Steve, è per te! — poi si guardò attorno. — Dove diavolo è andato Carella? Era qui un momento fa.
— Dal tenente — rispose Kling.
Parker riprese in mano il ricevitore. — Kronig? È dal tenente. Vuoi ritelefonare più tardi oppure preferisci dire a me?
— Si tratta solo del rapporto sulle scarpe e le calze che ci ha mandato il medico legale. Hai una penna e un foglio?
— Sì, un momento — borbottò Parker. Era partito senza la minima intenzione di mettersi a lavorare, quel mattino, prima di andare nel negozio affidatogli, e aveva giurato a se stesso di non rispondere al telefono, a meno che non fosse indispensanile. Ma ormai era fatta. Sedette sull'orlo della scrivania e si protese a prendere un blocco per appunti e una matita.
Si grattò poi il naso, e disse nel microfono: — Bene, Kronig, spara — quindi si chinò con la punta della matita posata sul foglio e il ricevitore tenuto fermo all'orecchio con la spalla.
— Le calze non hanno niente di particolare, Parker — incominciò Kronig. — Maglia normale, composta da un sessanta per cento di lana e un quaranta per cento di cotone. Potremmo restringere le ricerche a quattro o cinque ditte produttrici, ma non ci sarebbe senso a fare una ricerca del genere. Sono calze che si possono comprare in un qualunque grande magazzino.
— Bene — disse Parker. — Tutto qui? — E sul foglio scrisse semplicemente: «Calze, niente da fare».
— No, ci sono anche le scarpe — riprese Kronig. — Per queste ci è capitato un colpo di fortuna, per quanto non si riesca a capire come quadrino scarpe del genere con la descrizione del corpo che ci è stata data dall'obitorio.
— Raccontami tutto — incitò Parker.
— Si tratta di semplici scarpe nere, senza guarnizioni d'alcun genere sulla tomaia, senza perforazioni né cuciture decorative. Dopo una rapida ricerca abbiamo scoperto che scarpe del genere vengono dalla «American T.H. Shoe Company» di Pittsburgh. Questa Ditta confeziona scarpe sportive da uomo e da donna, roba comunissima. È una grossa Ditta.
— Capito — disse Parker, e non scrisse niente. — E allora cosa c'è, d'interessante, in questo particolare paio di scarpe?
— Questo. La Ditta di Pittsburgh produce scarpe per la Marina. Unico modello. Scarpe in un solo pezzo, nere.
— Ah!
— Ci sei?
— Ci sono. Le scarpe del morto sono di quelle.
— Bravo. Ma mi sai dire come quadrino un paio di scarpe della Marina col tipo che c'è all'obitorio?
— Cosa vuoi dire?
— Che il morto aveva dai sessanta ai sessantacinque anni! Mai visto marinai di quell'età?
Parker ci pensò un momento. — Scommetto che qualche ammiraglio di sessant'anni c'è — disse infine. — Sono marinai anche gli ammiragli, no?
— A questo non avevo pensato — ammise Kronig. — Be', comunque la storia è questa. La Ditta fabbrica scarpe per la Marina e le vende unicamente ai Servizi Rifornimenti della Marina. Otto dollari e novantacinque al paio. Credi che gli ammiragli mettano scarpe del genere?
— Non conosco personalmente nessun ammiraglio — ribatté Parker. — E poi questo mal di testa appartiene a Carella, non a me. Gli passerò l'informazione. E grazie.
— Non c'è di che — rispose Kronig e riattaccò.
— Gli ammiragli portano scarpe da otto dollari e novantacinque? — domandò Parker senza rivolgersi a nessuno in particolare.
— Le mie costano molto di più — disse Meyer — e io sono soltanto un poliziotto.
— Ho letto da qualche parte che J. Edgar Hoover non voleva che i poliziotti venissero chiamati poliziotti — commentò Kling.
— Oh bella! E perché? — domandò Parker. — Se non siamo poliziotti noi che siamo poliziotti, allora che cosa siamo?
Nessuno gli rispose perché in quel momento il capitano Frick entrò dal corridoio.
— C'è Frankie Hernandez, qui? — domandò il comandante del Distretto.
— È di là da Miscolo, capitano — rispose Meyer. — Lo volete?
— Sì, chiamalo — rispose il capitano. C'era un'espressione tormentata, sulla sua faccia, come se fosse successa una cosa spaventosa alla quale non sapesse come rimediare. Per la verità non erano molte le cose alle quali il capitano Frick sapesse metter rimedio. Per quanto fosse ufficialmente il comandante del Distretto, era difficile che estendesse la sua autorità oltre i poliziotti in divisa, e comunque non capitava mai che desse ordini al tenente Byrnes, il quale comandava la Squadra Investigativa con competenza e abilità. Decisamente, Frick non era un poliziotto brillante, ma bisognava riconoscergli il merito di lasciar fare le cose agli elementi più qualificati di lui. Però, bisogna anche dire che, mentre l'intera organizzazione dipendente da lui filava sotto il comando degli altri, lui non rinunciava ad agitarsi e a starnazzare come una gallina intenta alla cova d'un uovo recalcitrante.
Perciò si agitò anche mentre aspettava che Frankie Hernandez arrivasse. E non appena lo vide comparire, gli mosse incontro.
— Frankie, ho un problema — disse.
— Cosa c'è, capitano? — domandò Hernandez.
— C'è che un ragazzino si sta ficcando nei guai. È un bravo ragazzo, ma si è messo a rubare dai carrettini della frutta. Non gran che, ma l'ha fatto sette od otto volte. È un ragazzo portoricano, perciò ho pensato che tu forse lo conosci, e che se qualcuno gli parla facendogli un bel discorsetto ora, salviamo lui e la legge, e ci risparmiamo dei mal di testa in seguito. Sono venuto a cercarti per questo. Il ragazzo si chiama Juan Boridoz. Vuoi parlargli, Frankie, prima che si metta in seri guai? Sua madre è stata qui ieri pomeriggio, e mi è sembrata una brava donna, che non merita di vedere il figlio trascinato in tribunale. Juan ha soltanto dodici anni, forse si può ancora fargli mettere giudizio. Gli parlerai, Frankie?
— Certo, lo farò.
— Lo conosci? — domandò ancora il capitano.
Hernandez sorrise. — Non lo conosco, ma lo troverò — disse. Era idea comune all'Ottantasettesimo che Hernandez conoscesse tutti gli spagnoli e i portoricani del Distretto. Effettivamente, lui era nato e cresciuto nel quartiere, e conosceva molti degli stranieri che vi risiedevano, ma i suoi compagni ne facevano più che una questione di luogo di nascita. Così Frankie Hernandez era diventato una specie d'ufficiale di collegamento fra i poliziotti e i portoricani del posto. Gli altri agenti andavano da lui quando avevano bisogno d'informazioni, e i portoricani andavano da lui quando avevano bisogno di protezione, tanto dalla legge quanto da elementi criminali. E da entrambe le parti c'era gente che odiava Frankie Hernandez. Qualcuno all'87° non lo poteva soffrire perché era un portoricano, e, nonostante il regolamento che stabiliva una prevalenza di elementi del luogo tra le forze della polizia di un dato quartiere, alcuni pensavano che un portoricano non dovesse avere il diritto di fare il poliziotto, e tantomeno di essere addirittura agente investigativo. Alcuni del quartiere invece lo odiavano perché Hernandez non aveva mai voluto accomodare le loro marachelle rifiutandosi di passare sotto silenzio cosette come furti, e magari rapine, se commesse da portoricani. Hernandez non se la sentiva: era un poliziotto, e il dovere d'un poliziotto è quello di far rispettare la legge, da qualunque parte venga l'infrazione.
Ma, per lo più, Frankie Hernandez era benvoluto e rispettato. Era cresciuto in uno dei quartieri più malfamati, aveva superato da solo a testa alta la barriera della lingua (in casa sua si parlava soltanto spagnolo), ed era emerso dallo squallore dei bassifondi col suo comportamento eroico durante la seconda Guerra Mondiale, nel Corpo dei Marines. Più tardi aveva pattugliato in divisa le stesse strade che lo avevano visto crescere. Adesso era agente investigativo di 3° Grado. Era stata una battaglia lunga e difficile, e Frankie Hernandez sentiva di non averla ancora vinta. Perché combatteva per una causa: voleva dimostrare al mondo che anche i portoricani possono essere dei bravi ragazzi, come tutti gli altri.
— Allora gli parlerai, Frankie? — domandò ancora il capitano Frick.
— State tranquillo, gli parlerò oggi pomeriggio. Va bene?
La bocca del capitano Frick si allargò in un sorriso di gratitudine. — Grazie, Frankie — disse, e dopo avergli dato un'amichevole manata sulla schiena, si affrettò a uscire dalla sala agenti per tornarsene nel proprio ufficio.
Hernandez si accostò alla sua scrivania, e stava sedendo quando squillò il telefono.
Oltre la porta che recava la scritta «Tenente Peter Byrnes», Steve Carella guardava il suo superiore e avrebbe voluto che il tenente non trovasse tanto difficile dire quello che doveva. La faccia di Byrnes non riusciva mai a mascherare la riluttanza a dire o fare le cose spiacevoli.
— Senti — disse Byrnes — non credi che anch'io non possa sopportare quel figlio d'un cane?
— Lo so, Pete — rispose Carella. — Farò quello che...
— E pensi che mi abbia fatto piacere la telefonata del tenente Abernathy, ieri pomeriggio? Tu te n'eri appena andato, quando hanno telefonato dall'Ufficio Relazioni Pubbliche della Centrale. Il tenente Abernathy voleva sapere se un ispettore di nome Steve Carella lavorava con me, e se sapevo che questo ispettore aveva mandato delle fotografie a tutti i giornali tranne uno, e la tiritera è continuata con la storia che se la polizia si aspettava collaborazione dai giornali per il futuro, bisognava che si dimostrasse imparziale con tutti i quotidiani della città. Così ha chiesto che dessi una lavata di testa a questo Steve Carella, e provvedessi a far mandare immediatamente una copia di quella fotografia anche al giornale di Savage, accompagnata da una nota nella quale l'ispettore Carella si scusava per la sua distrazione. Abernathy vuol vedere una copia della nota, Steve.
— Okay — disse Carella.
— Ce l'hai con me?
— E perché? La pillola viene dall'alto, cosa c'entri tu? Del resto è colpa mia, avrei dovuto mandargli la fotografia. Questo genere di ripicchi non ha mai portato nessuno molto lontano.
— Già — fece Byrnes scuotendo la testa quadrata. — Allora scrivi due righe, Steve. «Mi rincresce d'aver trascurato il vostro giornale...» Qualcosa del genere.
— Va bene, Pete. Lo farò subito.
— Sì. Ottenuto qualcosa con quella foto?
— Non ancora — rispose Carella avviandosi alla porta. — Nient'altro, Pete?
— No. Tutto qui. Vai pure.
Carella rientrò nella sala agenti ed Hernandez gli disse: — C'è stata una telefonata per te, mentre eri occupato col tenente.
— Ah, sì?
— Qualcuno che ha visto quella fotografia sul giornale. Dice d'aver riconosciuto il morto.
6
Si chiamava Christopher Random, aveva circa sessant'anni, e solo quattro denti in bocca, due incisivi in alto e due sotto. Aveva detto all'agente Hernandez che potevano trovarlo in un bar chiamato «Joumey's End», e fu là che Carella ed Hernandez lo trovarono alle undici e mezzo di quel mattino.
Il nome del bar, fine del viaggio, si adattava alla maggior parte dei suoi clienti, che indossavano tutti abiti grigi stazzonati e pieni di macchie. Portavano tutti il berretto. Erano tutti sopra la cinquantina. E avevano tutti il tipico naso rosso e gli occhi annebbiati dei grandi bevitori.
Anche Christopher Random. Per di più quegli unici quattro denti gli davano l'aspetto di un fenomeno conservato nell'alcool. Carella domandò al barista quale di quegli uomini vestiti di grigio fosse il signor Random, il barista ne indicò uno, e Carella, con Hernandez, si accostò all'estremità del banco. Carella sfoderò la sua tessera sotto il naso di Random che ammiccò, annuì, e scolò il fondo del bicchiere posato davanti a lui. Poi alitò pesantemente rischiando di uccidere i due agenti.
— Il signor Random? — s'informò Carella.
— Sono io — disse Random. — Christopher Random, la vendetta dell'Oriente.
— Cosa volete dire con questo? — domandò Carella.
— Chiedo scusa. Dire, con cosa?
— Avete detto «la vendetta dell'Oriente».
— Oh! — Random ci pensò su per qualche secondo. — È soltanto un modo di dire — spiegò.
— Dunque, avete chiamato il Distretto, dicendo di sapere chi era il morto riprodotto sul giornale. È giusto?
— Giusto — disse Random. — Come vi chiamate, signore?
— Carella. E questo è l'agente investigativo Hernandez.
— Felice di conoscere due gentiluomini come voi — disse Random. — Qualcuno di voi due vuol bere qualcosa, o non ne avete il permesso, quando siete in divisa? — domandò Random. — In divisa è solo un modo di dire.
— Non abbiamo il permesso di bere quando siamo in servizio — rispose Carella.
— Questo è un vero peccato — commentò Random. — È un grosso peccato. Barista! Io vorrei un altro po' di whisky, per favore. Allora, vogliamo parlare di quella fotografia?
— Sì, signore. Che cosa sapete? — domandò Carella.
— Chi è quell'uomo?
— Non lo so.
— Ma credevo che voi...
— Volevo dire che non so come si chiamava. O per dir meglio, non conosco che il suo nome di battesimo.
— E qual è? — domandò Hernandez.
— Johnny.
— Johnny cosa? Non lo sapete?
— Giusto, signore, Johnny cosa, io non lo so. Si può dire Johnny Chi. — Random sorrise. — È soltanto un modo di dire. Ohhh, ecco il mio whisky. Bevete, ragazzi! Questa è roba che fa rispuntare i capelli! — Fece schioccare le labbra, posò il bicchiere e domandò: — Dove eravamo rimasti?
— Johnny.
— Ah, sì, Johnny.
— Cosa potete dirci di lui? Come mai lo conoscevate?
— Ci siamo incontrati in un bar.
— Quale bar?
— Oh... uno dello Stem, mi pare, signore.
— Dove, nello Stem?
— Nella Diciottesima?
— Ce lo dite o ce lo chiedete? — disse Carella.
— Non so esattamente che strada sia — rispose Random. — Ma so il nome del bar. Lo chiamano i «Two Circles», signore. Vi può essere utile?
— Forse — disse Carella. — Quando vi siete incontrati in quel bar?
— Lasciatemi pensare. — Le sopracciglia di Random si contrassero. Succhiò l'aria attorno ai quattro denti facendo un rumore disgustoso. — Penso meglio con un bicchiere pieno davanti a me — disse poi, in tono astuto.
— Barista! Un altro whisky — ordinò Carella.
— Grazie, signore. Molto gentile da parte vostra — disse Random. — Penso d'averlo incontrato alcune sere prima dell'inizio del mese. Il ventinove o forse il trenta di marzo. Era un sabato. Questo lo ricordo.
Carella trasse di tasca il portafoglio e ne tolse un piccolo calendario di celluloide. — Sabato era il ventotto — disse. — È stato il ventotto?
— Se era l'ultimo sabato del mese, sì, signore.
— Non ci sono stati altri sabati, in marzo, dopo quello — rispose Carella sorridendo.
— Allora quella era la sera giusta, signore. Ohhh, ecco il mio nuovo whisky. Bevete, ragazzi! Questa è roba che fa rispuntare i capelli! — E fece schioccare le labbra, poi depose il bicchiere e domandò: — Dove eravamo rimasti?
— A Johnny — rispose Hernandez. — L'avete incontrato in un bar chiamato «Two Circles», nello Stem, sabato sera ventotto marzo. Proseguite.
— Avete scritto tutto quello che ho detto, signore? — domandò Random.
— Sì.
— Magnifico.
— Quanti anni aveva, quell'uomo?
— Una sessantina direi.
— Vi è sembrato in buona salute?
Random si strinse nelle spalle. — Non saprei. Non sono un medico, io.
— D'accordo. Ma non avete notato se aveva qualche tic nervoso?
— A me è sembrato in buona salute — disse Random. — Voglio dire che a un esame superficiale dei miei occhi, senza aiuto di conoscenze mediche, quel Johnny mi è sembrato sano come un pesce. Questo è solo un modo di dire.
— Bene. Lui allora vi ha detto che si chiamava Johnny — riprese Carella. — Non vi ha detto anche il cognome?
— No, signore. Ah, con tutto il rispetto dovuto alla polizia, una lunga conversazione mi fa venire sempre sete. Se...
— Barista! Un altro whisky — ordinò Hernandez. — Dunque, non vi ha dato il suo cognome. Giusto?
— Giusto.
— E che altro ha detto?
— Ha detto che stava andando al lavoro.
— Che genere di lavoro?
— Non lo ha detto.
— Ma ormai era sera, no?
— Giusto, signore. Era sabato sera.
— E lui disse che stava andando a lavorare?
— Sì, signore. È proprio quello che ha detto.
— Ma non ha spiegato di che lavoro di trattava?
— No, signore. Indossava un'uniforme.
— Uniforme? — ripeté Carella.
— Uniforme? — fece eco Hernandez.
— Una divisa da marinaio, forse? — domandò Carella. — Era un marinaio, questo Johnny, signor Random?
— Ohhh, ecco qui il mio whisky — disse Random. — Bevete, ragazzi! Questa roba fa... — Schioccò le labbra, depose il bicchiere sul banco, e domandò: — A che punto eravamo?
— Alla divisa. Era una divisa da marinaio?
— Marinaio? Un uomo di sessant'anni? No, signore. È una domanda molto stupida, questa, con tutto il rispetto dovuto alla polizia.
— Allora, di che uniforme si trattava?
— Grigia — rispose Random.
— Avanti — incitò Hernandez.
— Poteva anche essere un'uniforme da postino — disse Random. — Però non sono sicuro. O magari quella di un autista d'autobus.
— Ma cos'era infine? Un postino o un autista?
— Ah, non lo so. A dir la verità non mi sentivo troppo bene, quella sera. Avevo un disturbo agli occhi, capite? Non riuscivo bene a mettere a fuoco, capite. E così ricordo soltanto che era una divisa grigia, con un berretto grigio.
— Non era una divisa da autista privato?
— No, signore. Era grigia, la divisa, non nera. No, non era la divisa di un autista privato. — Random fece una pausa. — Ma lui lavorava per qualcuno. Questo lo ricordo.
— Ha detto il nome della persona per cui lavorava? — domandò Carella.
— No, ne ha accennato solo indirettamente — rispose Random.
— Cos'ha detto di preciso?
— Che doveva andare a lavorare, se no il sordo si sarebbe arrabbiato.
— Il... che cosa? — fece Carella. — Il tordo?
— No! Il sordo. Sordo... Uno che non ci sente. Duro d'orecchio, insomma. Capito? Naturalmente può essere stato soltanto un modo di dire.
— Siete certo che abbia detto così? — insistette Carella.
— Sì, signore.
— Nient'altro, di questo sordo?
— No, signore.
— E nemmeno del suo lavoro?
— No, signore. Neanche una parola.
— Siete certo di ricordare esattamente, signor Random? — domandò Hernandez.
— Certo, che ricordo esattamente. Perché non dovrei ricordare?
— Be', avete detto che non riuscivate a mettere bene a fuoco.
— Sì, ma...
— E cioè che avevate un paio di vele al vento, vero? — disse ancora Hernandez.
— Questo è soltanto un modo di dire — intervenne Carella. — Ma significa che avevate fatto il pieno, vero, signor Random?
— Suppongo di sì — ammise Random, filosoficamente.
— Però, ciononostante, ricordate quello che vi è accaduto quella sera?
— Lo ricordo, sì, signore — insistette Random.
— Tu, cosa ne pensi? — domandò Hernandez a Carella.
— Io gli credo — rispose Carella.
L'uomo indossava una divisa da autista privato. Si teneva sulla porta della merceria e si guardava attorno tenendo il berretto in mano, in attesa. Uno dei commessi lo vide e gli andò incontro.
— Posso esservi utile?
— Il signor Lombardo? — chiese l'autista.
— Un momento, è nel retro. Vado a chiamarlo.
Il commesso riattraversò il negozio, sparì da una porta, e tornò dopo pochi secondi col signor Lombardo, il proprietario. Il signor Lombardo indossava un abito grigio scuro con una bella camicia bianca e una cravatta grigio chiaro, di seta.
— Sì? — disse all'autista. — In che cosa posso esservi utile?
— Il signor Lombardo? — si informò l'autista.
— Sono io — rispose Lombardo, accigliandosi. Forse sospettava già di cosa si trattasse.
— La macchina è pronta, signore — disse l'autista.
— Quale macchina?
— Quella che avete ordinato, signore. — L'autista sembrava stupito. — Io sono dell'autorimessa «Carey Cadillac», signore — aggiunse.
— Carey Cadillac? — ripeté Lombardo, e l'autista annuì, serio. — E dite che la macchina è pronta?
L'autista annuì ancora. Poi disse: — Avete detto alle dodici in punto, signore. E sono le dodici. — Sorrise, ma smise subito non appena notò che il cipiglio di Lombardo si era fatto più scuro.
— Io non ho ordinato nessuna macchina — dichiarò, calmo, Lombardo.
— Ma sì, signore. Avete detto James Lombardo, all'ottocentotrentasette di...
— Non ho ordinato nessuna macchina! — ripete Lombardo, a voce più alta.
— Si tratta ancora di quel pazzo, signor Lombardo — intervenne il commesso.
— Lo so.
— Chiamate la polizia, signor Lombardo — consigliò il commesso. — Ora, sta esagerando. Tutte quelle telefonate minacciose, e...
— Sì, avete ragione — approvò Lombardo. — È durato anche troppo — e si avviò verso, l'apparecchio telefonico.
— Un momento. E la macchina? — chiese l'autista.
— Non l'ho fatta venire io — rispose Lombardo mentre componeva il numero della Centrale telefonica. — C'è un pazzo che sta cercando di farmi lasciare il negozio, e questo è un altro dei suoi trucchi.
— Sentite...
— Non l'ho ordinata io, vi ho detto! — sbottò Lombardo. Poi, al telefono: — Voglio il numero della polizia.
L'autista si strinse nelle spalle, rimase a osservare Lombardo ancora per un po', quindi si piantò il berretto in testa e uscì. La nera Cadillac era ferma lì davanti, ma lui non vi si diresse subito. Prima si fermò davanti alla vetrina del negozio accanto a quello del signor Lombardo, ad ammirare gli zaffiri e i rubini e i diamanti sparsi sul velluto nero.
Infine, con un sospiro, andò alla sua macchina, vi salì e si allontanò.
7
Il sordo e Rafe erano rimasti nella sala d'attesa alla stazione del traghetto per quasi mezz'ora, a guardare la gente che andava e veniva, a osservare soprattutto quanti poliziotti facevano servizio di ronda sulla banchina e nella stazione o sullo stesso traghetto. Un grande orologio spiccava su una delle pareti verde pallido della sala, e di tanto in tanto il sordo lo guardava e poi guardava l'orario dei traghetti sul foglio che teneva in mano. L'orario era questo:
Il sordo studiò la tabella, fece un calcolo mentale, poi si avvicinò al più vicino sportello.
— Buongiorno — disse all'impiegato, con la sua voce bene educata, sorridendo.
— 'giorno — rispose l'impiegato, senza sollevare la testa dai suoi registri. Pareva che stesse controllando qualcosa. Tutti gli impiegati agli sportelli delle stazioni stanno sempre controllando qualcosa, anche quando ci sono i viaggiatori a far la fila. O contano i soldi, o contano i biglietti nuovi, o controllano i biglietti venduti, o registrano gl'incassi, o guardano i blocchetti di assegnazione. Qualche volta si contano le dita dei piedi. Comunque stanno sempre contando o controllando qualcosa, e sono così occupati con quello che stanno facendo, che non hanno il tempo di alzare la testa a guardare in faccia il viaggiatore. Quello a cui si era rivolto il sordo non faceva eccezione. Il sordo sprecò il suo più affascinante sorriso e parlò col suo tono più gentile, ma l'impiegato non alzò la testa per tutta la durata della conversazione.
— I vostri traghetti possono trasportare camion? — domandò il sordo.
— Dipende dalla grandezza del camion — rispose l'impiegato.
— Be', non si tratterebbe d'un camion con rimorchio — riprese il sordo, gentilmente.
— E di che camion si tratterebbe? — si informò l'impiegato.
— Un camioncino per i gelati.
— Trasporto gelati, eh? Del tipo solito?
— Sì, normalissimo.
— Il traghetto li porta.
— Come? Scusate, sono un po' sordo.
— Ho detto che, se si tratta di normali camioncini per il trasporto dei gelati, il traghetto li può portare.
— E bisogna fare il biglietto prima o si può comprarlo a bordo?
— Potete farlo sul traghetto.
— Volete dare un'occhiata a questo orario, per favore? — disse il sordo, spiegando sotto l'apertura dello sportello il foglietto con gli orari dei traghetti. L'impiegato non alzò la testa, si limitò a far scivolare gli occhi dal registro al foglietto, e a continuare i suoi conti. Non guardò in faccia il sordo neanche per un momento.
— Cosa c'è che non va, nell'orario?
— Dice che entrerà in vigore dal tredici aprile.
— Infatti. Se volete qualche orario vecchio...
— No, no. Volevo proprio quello di questo mese. Ma gli orari saranno questi per qualche tempo, o cambieranno?
— Restano così. Fino a giugno, probabilmente, non saranno emessi nuovi orari, e anche allora non avremo grandi cambiamenti, ma la gente è più contenta se vede una data recente sul foglietto.
— Quindi, questi traghetti sono validi per tutto aprile e tutto maggio?
— Anche per giugno — rispose l'impiegato. — E luglio. E agosto. Di solito, i cambiamenti si hanno in settembre, quando si accorciano le giornate.
— Oh, capisco. E posso comprare il biglietto a bordo dopo essere salito col camioncino. È così?
— Sì, è così.
— Bisogna arrivare molto prima dell'orario di partenza, o di solito imbarcate tutti i veicoli che vogliono traghettare, anche se non sono già qui a far la coda?
— Sul traghetto, c'è posto per venticinque macchine. Di solito ce n'è appena una decina. Non è tanta, la gente che va a Majesta. È un posto bello e tranquillo, ma la gente ha un'idea diversa della vita di città, perciò quel lato del River Harb non li attira.
— Grazie mille — disse il sordo. — A che ora parte il prossimo traghetto?
L'impiegato non smise di contare, e non alzò gli occhi all'orologio dell'atrio, né li abbassò sul suo che portava al polso. — Alle undici — disse. E fu tutto.
— Grazie — ripeté il sordo. Si allontanò dallo sportello, accennò un sorriso a un poliziotto in divisa che stava accanto all'edicola, e tornò in fretta alla panca dove Rafe aspettava.
— Io andrò a Majesta — disse. — Tu hai qualche telefonata da fare, no?
— Sì — rispose Rafe. La vista del poliziotto lo rendeva agitato. Non gli piacevano, i poliziotti. Aveva passato cinque anni in galera, per colpa loro.
— Ho controllato l'orario — riprese il sordo. — La sera della festa, prenderemo il traghetto delle cinque e quarantacinque. Il seguente è alle sei e zero cinque, il che ci dà venti minuti di respiro, se per caso andasse male qualcosa.
— Pensi che andrà male? — domandò Rafe. Era alto e magro, con un'aria dolce messa in evidenza dagli occhiali montati in oro e dai capelli biondi.
— No — rispose il sordo con sicurezza. — Niente andrà male.
— Come fai a esserne certo?
— Lo sono perché ho studiato tutte le possibilità. Inoltre, so esattamente con cosa abbiamo a che fare.
— Che cosa?
— Un corpo di polizia inadeguato.
— Non mi sono sembrati inadeguati, quando mi hanno mandato dentro — osservò Rafe.
— Prendiamo in esame il Dipartimento di polizia, allora — disse il sordo. — Approssimativamente, ci sono trentamila agenti in tutta la città, compresi i sobborghi. In questo numero, sono compresi tutti: specialisti, agenti di pattuglia, donne-poliziotto, agenti investigativi, capi compartimentali. In totale trentamila.
— E con ciò?
— Con ciò, gli abitanti di questa città sono circa dieci milioni. E trentamila poliziotti hanno il compito d'impedire che dieci milioni di persone commettano reati l'uno contro l'altro. Se dividiamo il numero dei criminali potenziali per il numero dei poliziotti, abbiamo che ogni agente è responsabile della condotta di circa trecentotrentatre individui. Giusto?
Rafe s'ingolfò in una laboriosa divisione mentale poi approvò. — Sì, è giusto.
— Ora, un poliziotto, anche ammettendo che sia armato coi mezzi moderni, non può assolutamente controllare trecentotrentatré persone se queste si mettono in mente, ad esempio, di commettere trecentotrentatré reati in trecentotrentatré posti diversi nello stesso momento. Per il poliziotto l'impresa diventerebbe fisicamente impossibile, in quanto, secondo le elementari leggi della fisica, una persona non si può trovare nello stesso momento in due posti diversi. Naturalmente, molti poliziotti insieme possono però intervenire in molti reati commessi simultaneamente. Ma anche tutti insieme, gli agenti non potrebbero prevenire dieci milioni di reati commessi contemporaneamente. Il gioco delle probabilità.
— Non ti capisco — disse Rafe.
— Le probabilità — ripete il sordo. — Il numero delle possibilità... Be', prendiamo un mazzo di carte, ti riuscirà più facile capire. In un mazzo ci sono cinquantadue carte. Per sapere quante combinazioni sono possibili con queste cinquantadue carte dobbiamo servirci di questa semplice equazione. — Il sordo prese di tasca un foglietto di carta, e vi scrisse: «52 p 52».
— Continuo a non capire — disse Rafe.
— È semplicemente il sistema matematico per scrivere le combinazioni di cinquantadue. Possiamo ricavare tutte le possibili combinazioni fattibili con tutti i numeri di un gruppo a semplice probabilità. L'equazione diventa... — e il sordo scrisse: «52 p 52 = 52!». — Questo ci dice quante sono le combinazioni possibili con un mazzo di cinquantadue carte — concluse.
— Che cosa significa il punto esclamativo? — domandò Rafe.
— Non è un punto esclamativo. Non esistono esclamazioni in matematica — rispose il sordo. — Quel segno significa solo che il numero indicato può venire moltiplicato per ogni inferiore numero intero fino a uno. Per esempio il numero quattro seguito da quel segno vuol dire 4 volte 3 volte 2 volte 1.
— Perciò quante combinazioni si possono ottenere con cinquantadue carte?
— Cinquantadue! Ossia cinquantadue volte cinquantun volte cinquanta volte quarantanove... e così via fino al numero uno. Ci vorrebbe un intero giorno per fare tutte le moltiplicazioni. Ma a rischio di farti diventare nuovamente nervoso, torniamo a un argomento che c'interessa più da vicino. I poliziotti. E specificatamente gli agenti investigativi dell'87o Distretto. La Squadra Investigativa è di sedici uomini. Ma quando faremo il nostro lavoretto, due saranno in vacanza, e due a Washington per accordi con la polizia federale.
— Ne restano dodici — commentò Rafe.
— Esatto. Vogliamo vedere quante sono le possibili combinazioni che questi dodici uomini possono ottenere fra loro? Ecco qui l'equazione. — Il sordo scrisse: «12 p 12 = 12!» — Il che significa — riprese — dodici volte undici volte dieci, eccetera. Ora vediamo cosa risulta. — Rapidamente compì una serie di moltiplicazioni sul foglietto. — Ci siamo — dichiarò alla fine. — Le combinazioni possibili da ottenere con dodici uomini sono esattamente quattrocentosettantanove milioni milleseicento. Sembra una cifra spaventosa, no?
— Puoi dirlo. Soprattutto se pensi che basta un solo poliziotto per spaventare me!
— Però i poliziotti, di solito, lavorano in coppia, e non in gruppi di dodici o di otto o di sei, e così via. E questo limita automaticamente il numero delle combinazioni possibili. Inoltre, non occorre fissarci sulle combinazioni di questi dodici uomini. Basta formulare una teoria astratta sulle forze di polizia e sulla soppressione dei reati. E si torna alla logica conclusione che la polizia non può trovarsi dappertutto nello stesso momento. La città è enorme, e i criminali pullulano. Perciò, la polizia opera su percentuale. Mi spiego. Il loro ragionamento è questo: un certo numero di reati deve restare impunito per il momento, perché non è possibile che uno di noi si trovi sempre nell'attimo e nel luogo in cui viene commesso un delitto, né possiamo compiere indagini su ogni reato dopo che è stato commesso. Comunque, col tempo, possiamo ogni giorno scoprire qualche criminale rimasto impunito e procedere contro di esso. «Col tempo.» Queste sono le parole chiave delle probabilità.
— Credo che sarà meglio fare quelle telefonate — disse Rafe, annoiato. — E poi, arriva il tuo traghetto.
— Solo un momento, Rafe. «Col tempo.» Ricorda queste parole. Se butti cinque volte di seguito una moneta, può darsi che ti venga croce per cinque volte. E se ti fermi lì, concluderai che una moneta ti dà croce cento volte su cento. Deviazione. Ricordi? La differenza fra l'osservazione e la realtà. Ma, più volte tiri la moneta, più vicino vai alla esatta percentuale. Ecco perché i poliziotti contano sul tempo. Dimmi: cosa succederà quando la polizia si troverà a fronteggiare qualcosa di assolutamente insolito? Quando non potranno contare sul tempo, e tutto accadrà in un periodo brevissimo?
— Non lo so. Che cosa accadrà?
— Che noi arriveremo a casa con due milioni e mezzo di dollari — disse il sordo. — Ecco che cosa accadrà!
L'agente immobiliare di Majesta era rimasto conquistato dal suo cliente. Si trattava di un tipo di bell'aspetto, con simpatici occhi blu, modi cortesi che sapevano di vecchio Sud. E poi sapeva quel che voleva, e non fece perdere tempo con tentennamenti.
— Una piccola casa con un garage — disse il sordo. — Non occorre che sia proprio vicino all'imbarcadero. Mi servirà soltanto per un paio di settimane. Il garage deve essere grande abbastanza per contenere due macchine, di cui una sarà un camioncino.
— Capito, signore — rispose l'agente immobiliare. — E la casa, quanti locali dovrebbe avere?
— Calcolate che saremo quattro adulti — disse il sordo. Sorrise col suo simpatico sorriso. — I miei amici e io stiamo lavorando a una sceneggiatura che dovrà essere pronta per questa estate. Ci servono due settimane di assoluta tranquillità, senza telefonate, senza seccatori, per poter lavorare con profitto. Ecco perché abbiamo scelto Majesta.
— Capisco — disse l'uomo d'affari. — Scrivete soggetti cinematografici, allora?
— Esatto.
— L'avrei giurato. Siete proprio il tipo che fa un lavoro del genere.
— Grazie — disse il sordo.
— E credo di avere la casa che fa per voi. Per che Casa Cinematografica lavorate?
— Una Società indipendente.
— Scrivete solo per il cinema?
— Oh, no.
— Forse vi conosco di nome — disse l'agente immobiliare.
— Forse.
— E qual è? Ne ho bisogno per il contratto d'affitto...
— Thomas Wolfe — disse il sordo.
— Oh, sì — esclamò l'altro. — Credo proprio di aver letto qualche vostro libro. Ma certamente!
Rafe fece un segno accanto al decimo numero del suo elenco. Ce n'erano altri quindici, dopo quello, e si riferivano tutti ad apparecchi situati nella parte sud della città, o per essere più precisi nella parte sud del territorio sotto il controllo dell'87° Distretto. Il numero di David Raskin era compreso nell'elenco. E anche quello di James Lombardo. Raskin aveva un magazzino di abiti fatti. Lombardo una grande merceria. E questi due uomini non avevano nessun legame fra loro. A meno di non voler considerare il fatto che il magazzino di Raskin era situato sopra una banca e il negozio di Lombardo accanto a una gioielleria.
Dei venticinque numeri dell'elenco, sei erano di negozi d'abbigliamento, otto corrispondevano ad altrettanti ristoranti, tre a pasticcerie, due a pelletterie, uno era un'agenzia di viaggi. Poi c'erano due calzolerie, il magazzino di Raskin, il negozio di Lombardo, e l'ultimo era un negozio di cravatte.
Un insieme del tutto innocente.
Ma il magazzino di Raskin era sopra una banca, e il negozio di Lombardo accanto a una gioielleria. Altri tredici negozi dell'elenco erano vicini ad altrettante banche. Sei avevano come vicini delle gioiellerie. Uno stava porta a porta con un'agenzia che si occupava del trasporto di valori. Un altro era situato dopo una Ditta che vendeva argenteria. Il ventiquattresimo era un ristorante cinese, al primo piano di un palazzo che ospitava al pianterreno un piccolo negozio nella cui vetrina erano esposte giade orientali per un valore di cinquecentomila dollari. E il venticinquesimo era accanto a un cambiavalute nella cui cassaforte c'erano sempre forti somme in contanti.
Rafe compose l'undicesimo numero della lista. Quando una voce rispose all'altro capo del filo, Rafe domandò: — Il signor Carmichael?
— Sì — rispose l'uomo.
— Andate via da quel negozio, signor Carmichael! — gridò Rafe. — Prima del trenta, o vi ucciderò!
8
— Macchina ventitré, eseguire ordine tredici. Indirizzo: Gramercy Street settecentotrentacinque. Tale Sergei Rosnakoff ha denunciato la presenza d'una bomba nell'inceneritore. Ordine tredici... Macchina trentasei... Macchina trentasei... Ordine undici...
— Qui macchina trentasei.
— Qui macchina ventitré. Volete ripetere l'indirizzo?
— Un momento, macchina trentasei. Macchina ventitré, ve l'abbiamo ripetuto due volte, cosa diavolo...
— Qui macchina trentasei. Aspettiamo istruzioni. Chiudo.
— L'indirizzo è Gramercy Street numero sette tre cinque.
— Sette tre cinque di Gramercy Street. Chiudo.
— Centrale chiama macchina trentasei...
9
Il tenente Sam Grossman era uno di quei rari individui di cui si va perdendo lo stampo, che danno enorme importanza al loro lavoro. Ed essendo fatto così, non avrebbe mai aspettato che fossero gli altri a chiedergli una informazione della quale avevano bisogno, se lui ne era già in possesso. Aveva lavorato tutto il lunedì sui resti della scatola di fiammiferi trovati fra gli avanzi dell'uniforme bruciata nell'inceneritore. Aveva una copia della lettera scritta dal tenente Dougherty, quindi sapeva che l'ispettore interessato al caso era Steve Carella. Comunque, anche se non si fosse trattato di un collega al quale Grossman era affezionato, anche se a interessarsi dell'uniforme fosse stato un oscuro poliziotto di pattuglia in servizio a Majesta, il suo comportamento non sarebbe stato diverso. Grossman era in possesso dell'informazione che poteva rivelarsi molto importante per l'uomo che stava compiendo indagini sul caso, e non avrebbe mai aspettato che fosse l'altro a telefonargli per esserne informato.
Non era arrivato alle sue conclusioni per un colpo di fortuna o con alcuni semplici esperimenti. Ci sono alcune prove estremamente facili, e che non richiedono particolare pazienza o costanza. Ma la ricostruzione di stoffa o carta bruciata non rientra certamente in questa categoria.
Per cominciare dalla scatola di fiammiferi, trovata insieme coi resti di quella che presumibilmente era la tasca superiore della giacca, non si sarebbe neanche sospettata l'esistenza se uno degli assistenti di laboratorio non avesse notato un residuo metallico in mezzo alle ceneri. Dopo studi accurati, si scoprì che il frammento metallico era un pezzetto di quei ganci che tengono ferme le liste di fiammiferi alla bustina. Una volta determinata la presenza della bustina di fiammiferi, il resto del lavoro fu logica conseguenza.
Esistevano quattro o cinque sistemi per ricostruire la bustina bruciata, e per tutti si richiedeva la pazienza di Giobbe, la saldezza di Gibilterra e la tenacia del senatore McCarthy. Il metodo migliore per quella particolare circostanza venne discusso ampiamente da Grossman e i suoi assistenti, e quando finalmente si furono messi d'accordo, rimboccarono le maniche e cominciarono a lavorare.
Per prima cosa, prepararono una soluzione all'uno per cento di gelatina e acqua, poi misero la soluzione in un piatto metallico. In seguito, Grossman passò delicatamente le ceneri su una lastra di vetro retta da uno degli assistenti, dopo di che la lastra, con la cenere, venne immersa millimetro per millimetro nella soluzione. Tutti trattenevano il fiato. Finalmente, la gelatina ricoprì interamente la lastra di vetro e relativa cenere. La cenere s'impregnò di soluzione. Restava da pressare la sostanza ottenuta senza mandare tutto a carte quarantotto. Un'altra lastra di vetro venne posata sulla prima, e i due vetri furono fatti aderire strettamente l'uno all'altro fino a eliminare ogni bolla d'aria. Le piastre, alle quali la cenere faceva da imbottitura, furono sistemate sotto una macchina fotografica caricata con pellicola ortocromatica, e la fotografia così ottenuta venne stampata su carta speciale.
Semplice.
Il procedimento richiese cinque ore.
Alla fine delle cinque ore gli uomini se ne andarono a casa.
Il giovedì mattina, Grossman telefonò a Carella.
— Ciao, Steve — gli disse. — Spero di non disturbarti. Ho pronto il rapporto su quella bustina di fiammiferi.
— Non disturbi affatto, Sam — rispose Carella. — Ma dimmi: come stai?
— Bene, grazie, Steve. Mi dispiace che il risultato dell'esame della divisa non sia stato più utile.
— Avete fatto un buon lavoro — lo consolò Steve.
— Figurati! Cosa c'è di buono in un rapporto su un'uniforme se non siamo in grado di dire che razza di uniforme è? Non credo che sia molto importante, per voi, sapere se contiene più nailon che lana o viceversa. Quello che vi premeva appurare era se si trattava di una divisa da fattorino o da postino, no?
— Giusto, Sam. Ma altri particolari possono rivelarsi preziosi.
— Non credo. Comunque c'è la faccenda della bustina di fiammiferi che forse ci riabilita.
— Qualcosa di buono?
— Considerate le condizioni in cui abbiamo dovuto lavorare, direi che il risultato è eccellente.
— Cos'hai scoperto?
— Dunque, per cominciare, la persona che v'interessa aveva ventitré anni, durante gli ultimi tempi ha fumato sigarette alla marijuana e si è coltivato una relazione scandalosamente intima con una bionda di età fra i tre e i trent'anni...
— Cosa?
— Proprio così — riprese Grossman. — Inoltre, dalle ceneri della bustina, abbiamo scoperto che il tuo uomo è stato in Corea, nei carristi, ed era mancino...
— Hai scoperto altro, da quella bustina? — domandò Carella, che aveva finalmente mangiato la foglia, e Grossman sbottò a ridere. Carella si unì alla risata, mentre l'alba spuntava lenta. — Razza di mascalzone! Per un secondo, ho creduto che parlassi sul serio! Adesso mi vuoi dire che cosa hai cavato da quella cenere?
— Il nome di un hotel.
— Qui in città?
— Indovinato.
— Spara.
— Hotel Albion. È sulla Jefferson, all'incrocio con la Terza Strada.
— Grazie, Sam.
— Aspetta a ringraziare. Probabilmente, quei fiammiferi si possono trovare da qualunque tabaccaio.
— Forse no, Sam. Forse sono fatti fare apposta per i clienti dell'albergo. Albion... Fa parte della grande catena Hilton?
— No. È un alberghetto tranquillo, senza molte pretese.
— Immaginavo qualcosa del genere. Farò delle ricerche. Grazie ancora, Sam.
— Di niente. Come sta Teddy?
— Bene.
— E i gemelli?
— Crescono.
— Be', ciao. Ci vediamo. — E Grossman riattaccò.
Carella scorse i suoi appunti, poi tirò a sé il telefono e chiamò il numero di casa sua, in Riverhead.
— Pronto? — rispose una voce scattante.
— Fanny, sono Steve. Teddy è ancora in casa?
— È di sopra. Cosa c'è? Io stavo dando da mangiare ai piccoli.
— Fanny, io dovevo incontrarmi con Teddy alle tre, ma purtroppo non posso. Vorresti dirle di spostare l'appuntamento alle sei davanti al «Green Door»? Andremo a cena fuori. Hai capito bene? Alle sei davanti...
— Ho capito benissimo — interruppe Fanny. — Vostro figlio sta urlando da trapassare i timpani. Scusate ma... Oh, madre di Dio!
— Cos'è successo?
— Ha tirato una cucchiaiata della sua pappa giusto nell'occhio destro di April! Non so proprio che cosa mi tenga in questa casa di matti! Mi sembra di essere...
— Ci resti perché senza di noi non puoi vivere, vecchia brontolona! — ribatté Steve, ridendo.
— Vecchia brontolona a me! Io che fino a due mesi fa facevo voltare tutti per la strada! — protestò Fanny.
— Va bene, sei giovanissima. Ma resti brontolona. Vuoi fare la mia commissione a Teddy, tesoro? — disse Steve imitando l'accento spiccatamente irlandese della donna.
— Sì, tesoro, farò la commissione. E adesso, volete ricordare voi una commissione per me?
— Di cosa si tratta?
— Per il futuro, non telefonate a mezzogiorno, perché quella è l'ora in cui i vostri adorati gemelli mangiano. E io ho già le mani sufficientemente occupate con due Carella, perciò non è il caso che un terzo venga a disturbarmi. Chiaro, signore?
— Sì, tesoro.
— Benissimo. Farò la commissione a vostra moglie. Quella povera creatura si è fatta in cento per arrivare in tempo a far tutto prima di prepararsi per l'appuntamento con voi, e voi adesso telefonate per...
— Ciao, tesoro — la interruppe Carella. — Va' a togliere la pappa dall'occhio di April. — Riappese sorridendo, e si domandò come avrebbero mandato avanti la casa, lui e Teddy, se non ci fosse stata Fanny. Ce l'avevano fatta, un tempo, ma allora non c'erano i gemelli. Fanny era arrivata insieme a loro, ed era stata assunta per mezza giornata. Poi si erano trasferiti nella casa nuova, e Fanny era rimasta a fare tutta la giornata allo stesso compenso di prima, o quasi. Carella non capiva esattamente che cosa le facesse accettare una situazione del genere, a meno che non fosse perché la donna ormai considerava la famiglia Carella come roba sua. Comunque fosse, le era estremamente grato. Qualche volta pensava che i bambini sarebbero cresciuti parlando inglese con l'accento infame di Fanny, dal momento che quello della donna era l'unico linguaggio che sentissero parlare tutto il giorno. Ma, in fondo, non era poi un gran danno.
Si alzò, tolse il fodero con la rivoltella dal primo cassetto della scrivania e se lo agganciò alla cintura, a destra. Prese la giacca dallo schienale di una sedia, e la infilò, quindi strappò il primo foglietto dal suo blocco d'appunti e se lo mise in tasca.
— Probabilmente starò fuori tutto il giorno — disse a Parker.
— Dove vai? Al cinema?
— No, a teatro.
«Stanno demolendo tutta la città» pensava Meyer, passando accanto al cantiere di Grover Avenue dove sarebbero sorti i nuovi negozi. Un grosso cartello annunciava che i lavori erano eseguiti dalla «Uhrbinger Construction Company». Per la verità l'osservazione di Meyer era lievemente errata, perché non stavano affatto demolendo la città ma costruendone una buona porzione. Come aveva notato il tenente Byrnes, il nuovo centro commerciale avrebbe compreso tutto, non esclusa un'ampia area adibita a posteggio. I nuovi negozi erano sistemati in un basso edificio modernissimo che contrastava in modo violento con le brutte case circostanti, ammassate le une alle altre, ma offriva il vantaggio di una visione pulita, una zona nella quale il cittadino avrebbe potuto respirare senza paura di malanni, mentre se ne andava con i suoi pacchetti o entrava nella banca per depositare i venti dollari risparmiati. Naturalmente, mancavano ancora alcune settimane perché la gente potesse entrare alla banca o al supermarket. La zona pullulava ancora di operai in tuta che andavano e venivano, trasportando assi e travi e tubi, e forse l'osservazione di Meyer, nonostante tutto, si avvicinava alla verità perché quegli uomini sembravano più far parte di una squadra di demolizione che non di un'impresa di costruzioni.
Meyer sospirò pensando che gli sarebbe stato difficile adattarsi al nuovo aspetto della zona, dopo tutti quegli anni. «Strano» pensava Meyer, «ma in genere non si fa molto caso a quel che ci circonda finché non avvengono dei cambiamenti. In quel momento, le vecchie case, ci diventano improvvisamente care, e le novità sembrano un sopruso, un'intrusione nell'ambiente familiare.»
«Cosa diavolo ti prende?» pensò ancora. «Ti piacciono le topaie, adesso?»
«Sì, mi piacciono!»
E poi l'87° Distretto non era una topaia. Per una parte sì, ma poi c'erano i palazzi d'affitto della Silvermine Road. È alcuni negozi dello Stem erano proprio belli. E Smoke Rise, lungo il fiume, era un quartiere elegante come non è facile trovarne tanti. «Comunque» si disse Meyer, «anche se questa zona registra il numero più alto di reati, a me piace. Non ho mai chiesto il trasferimento, anche quando ne avevo ottime ragioni, perciò vuol dire che qui mi piace davvero.»
«E così si torna alla domanda iniziale. Ti piacciono le topaie, i bassifondi?»
«Sì, mi piacciono. Mi piacciono perché sono vivi.
«Li odio perché generano delitti e violenze. Ma mi piacciono perché sono vivi.»
Era mezzogiorno, e Meyer Meyer percorreva le strade dei suoi bassifondi. Tagliò per la Trentesima Strada e proseguì in direzione nord. La città era un ricco arcobaleno di colori. Colori della carne, che andavano dall'innegabile bianco al bruno più scuro, passando attraverso i vari toni di bronzo dorato. Colori dei vestiti primaverili. Colori sulle bancarelle cariche di mele scarlatte e di gialle banane e di neri grappoli d'uva. E colore nei linguaggi che riempivano le strade: l'inglese dei privilegiati, l'imbastardito spagnolo, la tipica pronuncia degli ebrei. Tutto vero, tutto spontaneo, quasi primitivo, libero dagli sciocchi legami del ventesimo secolo. Questo intendeva Meyer quando diceva che i bassifondi erano vivi. Lì non esistevano i problemi su chi si deve sedere a tavola per primo, sull'esatto modo di presentare una duchessa a un marchese o viceversa, problemi di galateo che ci distinguono dai barbari ma che ci tolgono anche molta umanità.
Meyer percorreva quelle strade senza paura, pur sapendo che la violenza poteva scatenarsi attorno a lui in ogni momento.
Camminava con la primavera nel passo, respirando a pieni polmoni l'aria satura di esalazioni ma pur sempre aria d'aprile, e si sentiva felice di essere al mondo.
La soffitta che serviva da magazzino e stirerìa a David Raskin era situata giusto sopra una banca, la «Mercantile Trust». Il nome della banca era inciso su due imponenti piastre di bronzo, una ad ogni lato della pesante porta aperta per lasciar affluire il traffico di mezzogiorno. Un avviso annunciava che la banca avrebbe cambiato sede il trenta aprile e che avrebbe riaperto i battenti nel nuovo palazzo il primo maggio.
Meyer passò davanti al cartello con l'avviso e salì le scale fino alla soffitta di David Raskin.
Entrò senza bussare, e si trovò con gli occhi fissi sulla punta della scollatura di Margarita. Poi chiese di David Raskin e venne accompagnato in fondo al locale, dove Raskin, in maniche di camicia, sudato fradicio, stirava insieme alle ragazze. Il suo morale sembrava piuttosto alto.
— Salve, Meyer! — tuonò. — Giornata adatta per stirare, eh? Che bella giornata! Fuori deve essere una meraviglia, eh, Meyer?
— Qualcosa di stupendo — rispose Meyer.
— Questo è il mese migliore dell'anno. Aprile è il mese giusto per tutto. Il mese in cui anche un vecchio come me può dire che è tutto giusto, Meyer!
— Mi sembrate felice, oggi — osservò Meyer.
— Ah, sì. Sono felice. E sapete perché? Tanto per cominciare, il mio matto non ha più telefonato da venerdì. Siamo a giovedì, e grazie a Dio non è successo più niente. Perciò sono felice! Le mie ragazze non sono più spaventate, e io non sono ossessionato da quel rompiscatole. Per di più storcendo soldi a palate.
— Bene — disse Meyer. — Forse si è stancato del suo giochetto. Magari s'è accorto che non riusciva a spaventarvi abbastanza e l'ha smessa. Ne sono contento. E mi fa piacere anche il sentire che vi vanno bene gli affari.
— Non potrebbero andar meglio di così. Ho preso sei dozzine di abiti estivi, oggi, indovinate a che prezzo.
— Non ne ho idea. A quanto?
— Un dollaro l'uno! Ma ci pensate? Quelle magnifiche cose estive, senza maniche, attillate, io le venderò come si vende il pane. Verranno di corsa fin da Bethtown per comprarli. Posso venderli per quattro dollari l'uno! Ve lo dico io, Meyer, mi farò una fortuna. Avete visto la banca che c'è qui sotto?
— Sì — rispose Meyer, ridendo.
— Bene. Proprio qui, sotto i miei piedi, c'è la loro cassaforte. E in quella cassaforte, Meyer, io metterò migliaia e migliaia di dollari!
— Dovrete affrettarvi, allora — ribatté Meyer — perché la banca traslocherà alla fine del mese.
— In fretta o con calma, lo farò — disse Raskin, soddisfatto. — Mi conosceranno tutti come l'imperatore dell'abbigliamento, il re dei vestiti estivi da donna, il sultano degli abiti per le mamme, il monarca di Culver Avenue! Io, David Raskin! Se compro vestiti a un dollaro l'uno e li rivendo a quattro, potrò costruirmi una banca mia, e non avrò bisogno della cassaforte qui sotto. Sarò milionario, Meyer! Mi vedete milionario? Mi degnerò di...
Squillò il telefono, e Raskin si diresse all'apparecchio, continuando a parlare.
— ... guidare soltanto Cadillac, e indosserò soltanto biancheria di seta, e a Miami Beach mi conosceranno come... — sollevò il ricevitore — l'uomo più fortunato di Culver Avenue... Pront...
— Voi, figlio d'un cane — disse la voce al telefono — lasciate libera quella soffitta prima del trenta, altrimenti vi ucciderò!
10
L'Hotel Albion era sulla Jefferson Avenue, vicino alla Terza Strada. Una stretta tenda verde andava dall'ingresso dell'albergo all'orlo del marciapiede. L'usciere in divisa verde, intento a guardare le ragazze modellate dai loro abiti di cotone, notò l'avvicinarsi di Carella e fu pronto ad aprire la porta con le guarnizioni di ottone.
— Grazie — disse Carella.
— Benvenuto, signore — gli urlò l'usciere.
Carella entrò nell'atrio, e immediatamente gli parve di trovarsi lontanissimo dalla città. L'atrio era piccolo e quieto. Decorazioni in legno campeggiavano sul soffitto e sulle pareti. Uno spesso tappeto copriva tutto il pavimento. Poltrone e divani erano ricoperti di morbido velluto rosso e verde, e un grande lampadario di cristallo dominava il soffitto. A Carella sembrò di non essere più negli Stati Uniti. Forse a Venezia c'erano posti così, pomposi e con una cert'aria di decadenza, posti anacronistici nel ventesimo secolo, lunghi fuori tempo. Carella non era mai stato a Venezia, e per la verità non si era mai allontanato dagli Stati Uniti tranne durante la guerra, ma sentiva istintivamente che quello era un posto adatto alla città sull'acqua. Si tolse il cappello e andò verso il banco del portiere. L'impiegato non c'era. Anzi, l'albergo pareva completamente deserto. Ma c'era un campanello, sul banco, e Carella lo premette. Il trillo si sparse per l'atrio, ammorbidito dal folto tappeto, dal velluto delle poltrone e dai tendaggi delle finestre.
Un attimo dopo, Carella sentì un passo leggero scivolare giù dalle scale. Alzò la testa a guardare. Un uomo anziano, sui sessant'anni, stava scendendo dal primo piano. Era piccolo e magro. Portava una visiera di celluloide sulla fronte, e indossava un maglione scuro, probabilmente confezionato a mano da qualche vecchia zia del New Hampshire. Aveva tutta l'aria del solito generico che fa la parte del portiere in un albergo di piccola città nei film, o quella dell'ufficiale postale, sempre della piccola città, oppure la parte del tipo al quale il protagonista al volante di una macchina sportiva chiede la strada per andare in un dato posto. L'ometto aveva proprio quell'aria. Per un attimo, mentre lo guardava avvicinarsi, silenzioso nel silenzio claustrale dell'atrio, Carella ebbe l'impressione di far parte anche lui di un film, e che avrebbe detto battute scritte apposta da uno sceneggiatore di Hollywood, alle quali l'altro avrebbe risposto con parole prestabilite.
— Salve, giovanotto — disse il vecchio. — Posso esservi utile?
— Sono delle polizia — disse Carella, e, tratto di tasca il portafoglio, lo aprì, mostrando la tessera e il distintivo appuntato da un lato.
— Um-um — disse l'altro, annuendo. — Cosa posso fare per voi?
— Non credo d'aver capito il vostro nome — disse Carella, e immediatamente presentì che l'altro avrebbe risposto: «Non ve l'ho detto, giovanotto».
— Non ve l'ho detto, giovanotto — rispose il portiere. — Comunque è Pitt. Roger Pitt.
— Piacere, signor Pitt. Sono l'ispettore Carella. Abbiamo trovato i resti di...
— Avete detto Carella?
— Sì. Abbiamo...
— Come state, signor Carella?
— Bene, grazie. Dunque, abbiamo trovato in un inceneritore i resti di un'uniforme, e una bustina di fiammiferi del vostro albergo. Ora, siccome probabilmente l'uniforme ha a che fare con un caso sul quale stiamo indagando, vorrei sapere...
— Siete voi che fate le indagini?
— Sì, signor Pitt.
— Squadra Investigativa?
— Sì.
— Bene. Che cosa volete sapere?
— Per prima cosa, conoscete qualcuno di nome Johnny?
— Johnny e poi?
— Non sappiamo il cognome. Ma presumibilmente era la persona che indossava l'uniforme che c'interessa.
— Johnny, avete detto?
— Sì.
— Già.
Silenzio.
— Lo conoscete? — domandò Carella.
— Già.
— Come si chiama?
— Non lo so.
— Ma...
— L'amico di Lotte — disse Pitt.
— Lotte? — domandò Carella.
— Lotte Constantine. Vive qui. Johnny è venuto un sacco di volte.
— Capisco. Questa Lotte Constantine, dunque, è la sua amica. Giusto?
— Giusto — disse Pitt.
— Quanti anni direste che aveva, questo vostro Johnny?
— Aveva? — domandò Pitt, aggrottando le sopracciglia. — Una sessantina, direi.
Carella frugò nella tasca interna della giacca e ne prese una fotografia. La mostrò al portiere. Era la foto del morto pubblicata sui giornali.
— È questo l'uomo del quale parlate? — domandò.
Pitt osservò la fotografia. — Be', io non l'ho mai visto in costume da bagno. O mentre dormiva.
— Ma è lui?
— Può darsi. Non è una fotografia molto chiara, no?
— Forse.
— Ecco, sembra Johnny, eppure non sembra lui. Pare che manchi qualcosa.
— Infatti — disse Carella.
— E che cosa manca? — domandò Pitt.
— La vita. L'uomo della fotografia è morto.
— Oh! — Roger Pitt parve improvvisamente non volerne più sapere. — Sentite, dovreste chiedere a Lotte. Lei lo conosce meglio di me.
— Dove la trovo?
— Di sopra. Posso telefonarle, e forse lei verrà giù.
— Non vorrei...
— Ci vuole un secondo, a chiamarla — disse Pitt. Andò al quadro telefonico e infilò una spina in un foro, sollevando contemporaneamente il ricevitore all'orecchio. Un paio di secondi, poi: — Lotte? Sono Roger. C'è qui un tale che fa domande su Johnny. Sì, il vostro Johnny. Be', ho pensato che forse potete parlargli voi. Ecco, è della polizia, Lotte... A me pare un tipo per bene... Bene, glielo dirò.
Posò il ricevitore, staccò la spina e disse: — Scende subito. Si è agitata quando le ho detto che siete un poliziotto.
— Si agitano tutti, quando lo sentono dire — commentò Carella, sorridendo.
Steve Carella si appoggiò al banco ad aspettare che arrivasse la signorina Lotte Constantine. Se c'era una cosa che non gli piaceva era fare domande alla gente anziana. Per la verità erano molte le cose che non gli piacevano, e molte persone sarebbero state pronte a giurare che Steve Carella era un accidenti di poliziotto. Quindi la frase «se c'era una cosa che non gli piaceva», è solo un modo di dire. Comunque, fra tutte le cose spiacevoli, primeggiava quella di dover interrogare gente anziana, con particolare riferimento alle persone anziane di sesso femminile. Non aveva la più piccola idea del perché non gli piacessero le vecchie, a meno che non fosse perché non erano più giovani, comunque parlare con loro metteva sempre a dura prova la sua pazienza, e adesso non era affatto ansioso di incontrare Lotte Constantine, l'amica di un uomo che aveva avuto circa sessant'anni.
Mentre aspettava, osservò una bella rossa scendere le scale. Siccome portava una gonna molto tesa, la ragazza aveva dovuto sollevarla sopra le ginocchia per fare gli scalini, e scendeva con la testa un po' china, una ciocca rossa ondeggiante su un occhio.
— Eccola — disse Roger Pitt, e Carella si voltò a guardare in giro per l'atrio, poi guardò oltre la rossa, ma non vide nessun altro. E poi la rossa si avvicinò al banco con un movimento di fianchi che lo fece star male, gli tese la destra dalle unghie scarlatte, e disse con la voce più sensuale che Carella avesse mai sentito dai tempi di Mae West: — Salve. Io sono Lotte Constatine.
Carella inghiottì e disse: — Voi siete... la signorina Constantine?
La ragazza sorrise. Le sue labbra si ritirarono dai denti come tendine scostate per lasciar passare il sole. Una fossetta le si scavò sulle guance. — Sì — rispose. — E voi siete...
— Ispettore Carella — si presentò lui, cercando di riconquistare il controllo di sé. Si era aspettato una donna di cinquant'anni suonati, e si trovava faccia a faccia con una conturbante rossa che a occhio e croce doveva averne meno di trenta. Ne era rimasto sbalordito, a dir poco. Automaticamente, andò col pensiero al sessantenne che si era chiamato Johnny Qualcos'altro, poi pensò alle favole di «Mille e una notte» e si disse: «Oh povero me! Povero me!».
— Possiamo sederci e parlare, signorina Constantine? — domandò.
— Certo — rispose lei. Sorrise un po' a disagio, come se le fosse insolito mettersi a sedere con un estraneo. Le sue ciglia sbatterono, e lei trasse un profondo sospiro, mentre Carella guardava da un'altra parte facendo finta di cercare una sedia.
— Possiamo metterci qui — suggerì Lotte, e fece strada. Carella la seguì. Sposato o no, doveva ammettere che la ragazza possedeva la miglior carrozzeria che avesse visto da parecchio tempo. Fu tentato di darle un pizzicotto, ma si trattenne pensando: «Sono troppo giovane, per lei», e sorrise.
— Perché sorridete? — domandò Lotte sedendo e accavallando le gambe.
— Oh... Pensavo che siete molto più giovane di quello che avrei immaginato.
— Quanti anni avrei dovuto avere, secondo voi?
— Be'... una cinquantina.
— Perché?
— Be'... — Carella si strinse nelle spalle. Poi rinunciò. Tolse di tasca la fotografia del morto. — Lo conoscete? — disse.
Lotte diede un'occhiata alla foto. — Sì — rispose subito. — Cosa gli è successo? — Non fece la voce piangente, non affrettò il respiro, non boccheggiò. Disse semplicemente: «Sì» e poi, con molta logica: «Cosa gli è successo?».
— È morto — disse Carella.
Lotte annuì con un cenno della testa. Senza parlare.
— Chi era? — domandò Carella.
— Johnny.
— Johnny e poi?
— Smith.
Carella la fissò.
— Sì, Smith — ripeté la ragazza. — Johnny Smith.
— E voi chi siete? La Pompadour?
— Non mi pare una battuta divertente. Lui mi aveva detto di chiamarsi Johnny Smith. Perché non avrei dovuto credergli?
— Va bene. Da quanto tempo lo conoscevate, signorina Constantine?
— Da gennaio.
— Quando lo avete visto, l'ultima volta?
— Il mese scorso.
— Vi ricordate la data?
— Alla fine del mese.
— Era una cosa seria, fra voi?
Lotte si strinse nelle spalle. — Non lo so — rispose. — Che intendete per cosa seria?
— Be'... eravate più che semplici amici?
— Sì — rispose lei senza esitare. Pareva persa dietro pensieri suoi, quasi fosse sola. — Sì — ripeté. — Eravamo più che semplici amici. — Abbassò gli occhi, poi scosse la testa per ributtare indietro la ciocca rossa che le ricadeva sulla fronte. — Molto di più — aggiunse.
— Va bene. Avete qualche idea di chi potesse volere la sua morte, signorina Constantine?
— No. Come... Com'è morto?
— Mi stavo domandando quando lo avreste chiesto — osservò lui.
Lotte Constantine lo fissò stringendo gli occhi. — Cosa diavolo siete, voi? Il tipo del poliziotto duro?
Carella non rispose.
— Cosa v'importa se voglio o non voglio sapere com'è morto? — riprese lei. — Non basta che sia morto?
— Molti sono curiosi di sapere — spiegò Carella.
— Io non sono «molti»! Io sono io! Lotte Constantine. Voi siete un grand'uomo, vero? Una precisa, infallibile macchina calcolatrice! Si batte un tasto e, tac, esce la risposta giusta. Voi venite qui a dirmi che Johnny è morto, poi incominciate a far domande, un mucchio di domande stupide, e poi mi dite quale sarebbe la reazione di molti. Be', potete andare al diavolo, signor poliziotto, qualunque sia il vostro nome. Molte ragazze della mia età non s'innamorerebbero di un uomo di sessantacinque anni... Sì, sessantacinque, non mi guardate con quell'espressione sbalordita. «Molte» ragazze un uomo di sessantacinque anni lo sposerebbero a condizione che fosse miliardario, ma non se ne innamorerebbero. Quindi non venite a dirmi come si comporta il resto della gente. Per quel che me ne importa, il resto della gente può anche affogare!
— È stato ucciso da una fucilata quasi a bruciapelo — disse Carella, senza staccare gli occhi dalla faccia della ragazza. Sulla bella faccia della rossa non comparve nessuna espressione. Neanche la più lieve traccia di emozione.
— Dunque è stato ucciso con un fucile — disse. — Chi è stato?
— Non lo sappiamo.
— Io non lo so.
— Nessuno ha detto che lo sapete.
— Allora, che cosa siete venuto a fare, qui?
— Stiamo cercando di identificarlo con certezza.
— Ora lo avete identificato. Si chiamava Johnny Smith.
— Vi pare che questo nome possa essere utile?
— Che cosa diavolo volete da me? Era il suo nome, non il mio.
— Non vi ha mai detto il suo vero nome?
— Mi ha detto di chiamarsi Johnny Smith.
— E voi gli avete creduto?
— Sì.
— E se vi avesse detto che il suo nome era Maurice Chevalier?
— Gli avrei creduto anche se mi avesse detto di chiamarsi Stalin. E con questo?
— Che cosa faceva per vivere? — domandò Carella.
— Era un pensionato.
— E l'uniforme?
— Quale uniforme? — disse Lotte.
— Quella che qualcuno gli ha tolto e ha buttato in un inceneritore per distruggerla.
— Non so di cosa state parlando.
— Non l'avete mai visto in uniforme?
— Mai.
— Non aveva qualche lavoro? Forse fattorino in qualche Ditta...
— No. Io gli davo... — Lotte si interruppe.
— Dicevate?
— Niente.
— Volevate dire che gli davate del denaro?
— Sì.
— Dove abitava?
— Io... Io non lo so. Veniva qui spesso.
— Per restare a lungo?
— Qualche volta.
— Quanto si fermava, di solito?
— La volta che è restato più a lungo, si è fermato due settimane.
— Pitt era al corrente?
Lotte si strinse nelle spalle. — Non so. Che importanza ha? Io sono una buona cliente. Vivo in questo albergo dal giorno in cui sono arrivata in città, quattro anni fa. Che importanza ha se un vecchio... — Si interruppe e fissò a sua volta Carella. — Smettetela di guardarmi come se fossi una specie di fenomeno! Io lo amavo.
— Non vi ha mai parlato della sua uniforme? O di un lavoro?
— Mi ha detto d'un affare.
— Che specie di affare? — domandò Carella, protendendosi in avanti.
La ragazza mosse le gambe. — Questo non lo ha detto.
— Ma ha accennato a un affare?
— Sì.
— Quando ve ne ha parlato?